Nel brano proposto, Giuseppe Sandrini getta luce su due percorsi letterari e intellettuali apparentemente distanti l’uno dall’altro, scoprendoli paralleli: quelli di Giacomo Leopardi e di Tommaso Landolfi. Riprendendo e ampliando l’intuizione espressa da Italo Calvino nella lettura critica che accompagna Le più belle pagine di Tommaso Landolfi, Sandrini non ripiega però verso una analisi di singole tematiche comuni ai due autori, o verso meri riscontri biografici, scegliendo piuttosto la via dell’indagine filosofica; in particolare, il punto nevralgico in cui la speculazione leopardiana e quella landolfiana parrebbero convergere riguarda l’indagine sulla natura profonda del linguaggio, che per ambo gli autori conserva una larvata, eppure grandiosa porzione di inesprimibilità. Il Landolfi inventore di linguaggi ‘personali’, così come il Leopardi che riconosce, dialetticamente tra le pagine dello Zibaldone e figurativamente nei Canti, l’impossibilità di uscire dalla dimensione linguistica (e dunque gnoseologica) di un diuturno “forse” sembrano affermare, certamente in epoche diverse e con modalità non sovrapponibili, un’analoga tensione a sciogliere la contraddittoria natura dell’espressione linguistica, perennemente tesa tra la necessità di rispecchiare la realtà e la volontà di tradurre quest’ultima in pensiero poetico.
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Un estratto dal libro di Antonio Prete, “A l’ombre de l’autre langue. Pour un art de la traduction”

 

 
Il sogno e il delirio (sua variante vigile, dunque perversa) costituiscono, per così dire, i fuochi attorno cui la ricerca linguistica di Landolfi ruota senza sosta, a quella stessa distanza costante e tremenda con cui la navicella di Cancroregina ruota attorno alla Terra: il sogno leopardiano di poetica purezza primigenia, che si tenta consci della sua impossibile realizzazione; il delirio insito nella volontaria, anzi programmatica evasione del senso, il quale è denuncia di un sogno svanito nelle tenebre chiare della veglia. Al di là dello scoglio apparentemente insormontabile del significato mancato, dell’insensato prodotto da sogni e deliri, il Landolfi del Dialogo dei massimi sistemi, a mezzo fra il divertissement contagioso à la Carroll e l’universalismo di Finnegans Wake, fa scorgere al lettore uno spazio incontaminato di essenze: l’apparentemente intraducibile, allora, diventa il già tradotto, forma in sé sostanziale dacché esprime una creatività svincolata dalla logica consuetudinaria.
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Autoantologia landolfiana – Quattro contributi

di ANTONIO PRETE
 

 

La piccola silloge che qui si propone offre un quadro d’insieme complesso della figura di Tommaso Landolfi. Quasi a ricostruire le tappe di un dialogo tra l’autore e il suo lettore d’eccezione, Antonio Prete, questi scritti eterogenei sono accomunati da un’identica, appassionata volontà interpretativa.
 

 

 
COSMOGRAFIE LANDOLFIANE
 

 
Fisica e metafisica lunare
 

La cosmografia dei romantici dava allo stupore uno sfondo metafisico, trasformando la contemplazione in interrogazione ultima: il notturno lunare era il teatro di una esplorazione dell’interiorità o, come accadeva meravigliosamente in Leopardi, lo spazio scenico di una meditazione sulla transitorietà dell’uomo e delle cose. Acquisto di un punto di estrema lontananza dal quale osservare l’insignificanza del mondo. La cosmografia di Landolfi accoglie la tensione metafisica e interrogativa delle poetiche romantiche, ma ne svolge, amplificando fino alla consapevole maniera e all’artificio, la tessitura ironica, teatralmente grottesca, e insieme perturbante. Un dialogo assiduo con la cosmografia leopardiana agisce nella scrittura di Landolfi. E infatti la leopardiana oscillazione, o meglio tensione, tra affabulazione e parodia, tra modi fantastici e ansia metafisica diventa in Landolfi la misura di uno stile e di una ricerca. Per questo il giudizio del Signor Giacomo Leopardi è messo in scena, con una filosofica mimesi di scrittura, in appendice alla Pietra lunare, il bellissimo racconto del ’37. La luna landolfiana è osservata, leopardianamente, nella sua ambivalenza: divina e familiare, enigmatica e prossima, sovrana e compagna. È su questo sfondo che prende forma la dimensione ctonia, oscura, dell’elemento lunare. La sovranità pensosa e amicale della luna leopardiana nella Pietra lunare è in certo senso umanizzata e insieme animalizzata, cioè è portata verso la terrestrità corporea dell’amore. Gurù è certo una creatura lunare, che si muove in relazione costante con il sorgere e tramontare della luna, ma è anche, come in un teatro gnostico, emanazione corporea della divinità lunare. Figura della compresenza di luce e oscurità che è propria della luna: angelo e demone. La rappresentazione del fantastico, da Poe a Hoffmann a Gautier a Dostoevskij a Maupassant – è questa una sezione della biblioteca landolfiana – ha sempre mostrato l’estraneo come familiare, il misterioso come prossimo e transitabile: l’effetto, freudianamente, come ormai diciamo, della perturbante compresenza diventa elemento di tensione propria del fatto narrativo. La luce lunare di Landolfi non vela e rivela le cose, come quella leopardiana, non è, contemporaneamente, nascondimento e rivelazione, ma è una luce per così dire “maladive” – analoga in questo al profumo dei baudelairiani Fiori del male – e per questo avvolge le cose, come accade nel racconto L’impero della luna (nel Principe infelice) in un bagliore di diamanti che però è come una grande nebbia: tutto è irreale in quello scintillio d’alabastro, in quell’abbaglio vitreo, e gli abitanti sono malati di chiardilunaMaladive è la luce lunare, ma quella solare può essere mortale: nel racconto Colpo di sole l’abbaglio della luce che sopravviene è descritto dal punto di vista della civetta, che via via, dissipandosi l’oscurità, è invasa da nausea e malinconia e strazio finché non “sprofonda nella luce bianca della morte”.
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Landolfi senza luna

di ELENA FRONTALONI
 

 

Dei versi di Umberto Saba, Giovanni Raboni apprezzava soprattutto la levigatezza immediata del dire, nemica del critico-scalatore che si getta sulle oscurità del testo poetico per comprenderlo e spiegarlo (complicarlo) con affilati strumenti d’analisi formale. Tra gli strumenti nemmeno tanto affilati, c’è la ricerca delle fonti e delle citazioni dai classici; e quando si tentano simili operazioni per testi poetici del Novecento, stilare la tabella dei debiti dai Canti di Leopardi sembra un passaggio ghiotto e obbligato. Ghiottissimo il caso delle poesie di Tommaso Landolfi: una recente edizione di Viola di morte (diario in versi e prima raccolta poetica dello scrittore di Pico, del 1972, uscita di nuovo nel 2011 per Adelphi) dimostra come questo libro sia costruito interamente col linguaggio della tradizione letteraria e assai ricco di riferimenti leopardiani. Peccato che questi ultimi siano in più occasioni fin troppo smaccati. Il risultato è che in maniera speculare ma al contempo simile di come può capitare con Saba, il critico-scalatore viene disarmato da Viola di morte perché il prestito, o il tradimento, è spesso talmente riconoscibile da dar l’impressione di nascondere qualcos’altro – anche solo un ghigno («par quasi io conosca Leopardi e la sua opera, come deve aver affermato un recensore buontempone», si legge in uno dei primi appunti di Rien va, diario in prosa pubblicato da Landolfi nel 1963).
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