È disponibile il nuovo fascicolo di 

«Diario perpetuo»

Landolfi nel secondo Novecento. Saggi e testimonianze

https://www.quodlibet.it/libro/9788822914552

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I Saggi raccolti nella prima sezione schiudono sentieri di ricerca lungo direttrici tematiche landolfiane (come il topos della «donna-capra», il cronotopo della casa, il mitema del vampirismo, alimentato dall’ampio patrimonio di letture russe) che percorrono il panorama della letteratura italiana del secondo Novecento e degli ultimi magmatici decenni. Ricchi di potenziali sviluppi verso altre esperienze e figure, i contributi indagano le risonanze landolfiane nella poetica o in singole opere di un ventaglio eterogeneo e plurigenerazionale di scrittori nati tra gli anni Venti e Ottanta, nonché nella produzione artistica contemporanea.

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Call for papers «Diario perpetuo» (2025)

Landolfi e la critica

Il nuovo numero di «Diario perpetuo» si propone di indagare i rapporti di Landolfi con la critica, nelle sue varie declinazioni. Da un lato la ricezione e la fortuna dell’opera landolfiana nei vari “tempi” del Novecento e del secolo presente: dalle prime caratterizzazioni come «scrittore d’ingegno» alle letture più o meno consentanee che si sono succedute nei decenni, con l’avvicendarsi dei contesti e delle scuole letterarie. Nel corso di questa vicenda Landolfi ha finito per restare in qualche modo sulla soglia del canone maggiore, vuoi per caratteri intrinseci alla sua opera (elitarismo, renitenza alla comunicazione diretta), vuoi per spigolosità personali, vuoi per l’assenza di un critico mallevadore in grado di fare per Landolfi ciò che Contini ha fatto per Gadda, ossia “inventarne” una centralità pur in presenza di elementi irregolari e di uno stile fuori norma. Il fatto che il principale e più fedele sponsor di Landolfi sia stato un critico come Carlo Bo, la cui autorevolezza e persuasività sono andate calando nel secondo Novecento, ha influito senza dubbio sulle sue fortune e ha contribuito a collocarlo entro un orizzonte post-ermetico percepito come attardato nel clima avanguardistico degli anni Sessanta e Settanta. Il recupero in chiave borgesiana-postmoderna operato da Calvino con Le migliori pagine (1982) e relativa postfazione (L’esattezza e il caso), sebbene in parte artificiale, ha contribuito a riportare Landolfi all’attenzione della critica e – successivamente, dopo il passaggio al catalogo Adelphi – dei lettori, rinnovando un interesse che appare quantitativamente notevole negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.

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Quarta d’autore N°8

 

 

 

Giorgio Biferali presenta La biere du pecheur

La biere du pecheur  Landolfi lo immagina come una “specie di diario”, e a pensarci bene è un titolo che ne contiene due, La bara del peccatore o la birra del pescatore, a seconda degli umori di chi scrive e di chi legge. Ed essendo un diario o quasi, Landolfi non sa bene come muoversi, o almeno finge di non saperlo, e non appena entra in scena sa che dovrà ricorrere a due elementi nei quali non ha mai creduto davvero: la scrittura e la realtà. Questo piccolo grande viaggio dentro se stesso ce lo presenta come un ripiego, visto che non è riuscito a scrivere in terza persona, ci ha provato, sì, ma non c’è stato niente da fare, e quindi non gli rimane che affidarsi alla prima.

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Quarta d’autore N°7

 

 

 

Matteo De Giuli presenta Le labrene

Animali veri eppure fantastici abitano i racconti di Tommaso Landolfi. Sono presenze perturbanti, simboliche, spettri della mente che si modellano attorno alle ossessioni dei protagonsti e assumono fattezze ferine. Prendiamo le labrene, i piccoli rettili che infestano la casa del narratore nel racconto che dà il titolo a questa raccolta. Le labrene non sono altro che i comuni gechi, eppure le labrene sono anche molto di più: esseri repellenti e arcani, mostriciattoli minacciosi e dal potere immenso, capaci di uccidere chiunque abbia la sciagura di toccare le loro squame. E muore, il narratore, proprio quando sfiora per fatalità una labrena, nel tentativo di scacciarla. Si risveglia da cadavere, a terra, immobile, muto. Imprigionato in quel corpo esanime, riesce però lo stesso a sentire le voci di casa e poi quelle del proprio funerale, le parole dei cari, e della moglie, che prima lo compiangono e poi pensano subito a dimenticarlo, progettano il futuro, le loro nuove vite. Ma è morto davvero, il narratore, o stiamo attraversando assieme a lui il suo delirio allucinatorio?

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Quarta d’autore N°6

 

 

 

Elena Fontaloni presenta Il principe infelice e altre storie per bambini

Il volume raccoglie quattro storie per bambini scritte da Tommaso Landolfi tra il 1938 e il 1968. Disgraziatissime quanto a vicende editoriali, le prime due, Il principe infelice La raganella d’oro, sono favole lievi e profonde (Mario Luzi), tralignanti i modelli aurei di Andersen, i Grimm, Wilde oltre che delusive rispetto a ruoli, svolgimenti e finali comunemente attesi. Il principe infelice, ambientata nella luce della luna e del sogno, ha per eroina una fanciulla povera dal cuore di cristallo, la quale salva un sapientissimo rampollo di re dalla malinconia ma non diventa principessa perché re e rampollo perdono il trono per aggiustare il di lei cuore nel frattempo spezzatosi: il libro è steso e compiuto nel 1938, viene pubblicato da Vallecchi solo nel 1943 e ristampato – inaccuratamente – nel 1954 (del Principe felice di Wilde, occhieggiato dal titolo, Landolfi scrive la parodia in un altro testo, non rivolto i bambini e coevo al Principe infelice, dal semplice titolo Favola). La raganella d’oro, racconto di uno stato di emergenza con per eroe un palafreniere molto adoprantesi per la salvezza della patria e di un’amata principessa, la quale infine sposa non lui, ma il persecutore (un principe trasformato per maleficio in bestiale gigante), è finito e consegnato nel 1947, esce sempre per Vallecchi solo nel 1954, dopo una serie angosciante di lettere tra l’autore e l’editore. Piuttosto negletti al tempo e oggi dimenticati anche gli altri due testi, usciti entrambi nella collana “I Gemelli” di Giovanni Arpino dentro volumi collettanei, rispettivamente nel 1967 e nel 1968: i Colloqui tra un padre e una figlia magnifica e malignetta che non vuol andare a letto, dai quali nascono storie fantastiche più o meno ben riuscite secondo la piccola provocatrice, e per finire le Filastrocche, con i loro ottonari che contrappongono alla bella fuggevole giovinezza di Lorenzo de’ Medici un testardo rimanere se stessi, “corti, matti e arfasatti” (Sale e pepe); onomatopee come personaggi (Ta, Tarà, Tatà); una sontuosa conta del “non” che termina grazie all’apparizione di una pica (Grande filastrocca negativa con tocco finale).

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