Landolfi senza luna

Landolfi senza luna

di ELENA FRONTALONI
 

 

Dei versi di Umberto Saba, Giovanni Raboni apprezzava soprattutto la levigatezza immediata del dire, nemica del critico-scalatore che si getta sulle oscurità del testo poetico per comprenderlo e spiegarlo (complicarlo) con affilati strumenti d’analisi formale. Tra gli strumenti nemmeno tanto affilati, c’è la ricerca delle fonti e delle citazioni dai classici; e quando si tentano simili operazioni per testi poetici del Novecento, stilare la tabella dei debiti dai Canti di Leopardi sembra un passaggio ghiotto e obbligato. Ghiottissimo il caso delle poesie di Tommaso Landolfi: una recente edizione di Viola di morte (diario in versi e prima raccolta poetica dello scrittore di Pico, del 1972, uscita di nuovo nel 2011 per Adelphi) dimostra come questo libro sia costruito interamente col linguaggio della tradizione letteraria e assai ricco di riferimenti leopardiani. Peccato che questi ultimi siano in più occasioni fin troppo smaccati. Il risultato è che in maniera speculare ma al contempo simile di come può capitare con Saba, il critico-scalatore viene disarmato da Viola di morte perché il prestito, o il tradimento, è spesso talmente riconoscibile da dar l’impressione di nascondere qualcos’altro – anche solo un ghigno («par quasi io conosca Leopardi e la sua opera, come deve aver affermato un recensore buontempone», si legge in uno dei primi appunti di Rien va, diario in prosa pubblicato da Landolfi nel 1963).

È il caso di Muore l’uomo a fatica (p. 122 della nuova edizione), dove Landolfi fa il gesto di voler teatralmente rovesciare, punto contro punto, i versi centrali del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. E invece, di questo canto, precisa forse più semplicemente il contenuto. Lascio alla buona volontà di chi legge prendere in mano o ricordare il testo di Leopardi. Ecco testo di Landolfi:
 

Muore l’uomo a fatica
Ed è rischio di nascita la morte
prova pena e tormento per ultimo
Per ultimo; e in sull’ultimo momento…

(Il molle corpo del nascente
Forzato giù per la matrice:
Tale è la sola immagine che resta,
E sordida non meno e sanguinosa,
Della morte. Ma qui nessuno attende.

Chi ci consolerà dell’esser morti?).
 

L’operazione risponde all’uso della tradizione poetica che Landolfi fa in Viola di morte: usare i cocci della suddetta tradizione (le parole solo «perentorie», che possono essere facilmente ritoccate tanto quanto i luoghi comuni da utilizzare con sfacciataggine perché difficilmente sostituibili senza perdita di senso e di suono, per esempio: «fuggitivi») come un linguaggio, uno strumento attraverso il quale pronunciare monconi di verità, o forse meglio debolmente mordere alcune tare dell’esistente con le parole più lontane dal vero e dalla vita, quelle della letteratura, rappresentando nello stesso tempo il proprio desiderio (autentico e inappagato) di uscire dalla letteratura tramite la letteratura stessa.
Ora i versi di Muore l’uomo a fatica lavorano sul testo di partenza in tre direzioni: sgombrano il terreno dagli attori principali della poesia di Leopardi (la luna, la greggia e il pastore) e la trasformano senza troppe cortesie in un monologo parlato dalla condizione umana; nella prima parte (vv. 1-4) si sfrutta il meccanismo del puntuale rovesciamento; nella seconda (vv. 5-10) il rovesciamento si combina con tagli e addizioni rispetto all’intero Canto, il succo del quale è dato invece per acquisito («È funesto a chi nasce il di’ natale»).
A sfondo di queste scelte, va messo il pensiero di Landolfi sulla morte: non porto quieto, uscita dalla vita come volontà di continuare a vivere; piuttosto imperfetta simulazione della non-esistenza («non essere e non essere mai stati e non dover mai essere», ancora Rien va, p.151), e simulazione talmente imperfetta da mimare le spinte e gli strazi della nascita e della vita, tra cui, in primis, la sofferenza fisica. Morte e nascita, con quel che c’è nel mezzo, sono così chiuse nella stessa immagine: il sangue marcio, già infetto di vita («e sordida non meno e sanguinosa») che accompagna l’uomo all’uscita dall’utero materno e fino all’abisso.
Se però la nascita, si sa, è consolata dalla congrega umana (i genitori, per primi, a calmare il pianto del neonato), se il «vecchierel bianco, infermo» può darsi l’illusione d’esser «lacero, sanguinoso» (così nel Canto) per via del cammino della vita, degli urti dovuti allo stare al mondo, la morte mostra all’uomo irrevocabilmente la sozzura putrescente della nuda vita e della nuda morte, la nuda sofferenza di “essere, essere stati, dover essere”, di essere nella vita anche dentro alla morte e nella morte anche dentro alla vita. Quello descritto è insomma lo stato inconsolabile dell’abitante del «crepuscolo»: suprema beffa, e senso ultimo, di ciò che l’uomo abita ed è finché sente, e che per salvarsi tenta di separare e di definire con parole contrapposte: “vita” e “morte”.
Come s’è detto, per descrivere questa beffa con gli strumenti che ha in mano, Landolfi sembra saper molto bene di dover comunque giocare al gioco della letteratura: «sostituire», «simboleggiare», sperare di esser «sorpreso» dalla morte per non guardarla negli occhi, magari mentre, esponente dell’umanità femmina e sempre bambina, scorrazza nel limbo delle povere anime colte da maldipancia (Rien va, p. 165). Anche per questo, (forse meglio per precauzione igienica rispetto a un simile movimento) credo manchi di proposito in Muore l’uomo a fatica un appuntamento che nelle sue scritture ci si aspetterebbe: quello con la luna invocata dal pastore e in genere con la luna di Leopardi, sulla quale spesso in prosa costruisce gradevoli «controcanti» (la luna non corteggiata, la luna brutta, la luna per niente vergine: strega, piuttosto).
Vale forse la pena guadagnarsi un ghigno postumo dell’autore e indovinare meglio il perché di questa assenza, di questo silenzio. C’è un racconto, assai famoso e già citato da Antonio Prete in margine a un suo scritto sulla luna di Landolfi e quella di Leopardi (Luna nera, in Un linguaggio dell’anima, a c. di I. Landolfi e A. Prete, Manni, San Cesario di Lecce, 2006) che s’intitola Voltaluna. Il titolo del racconto vale l’espressione “dar di volta alla luna” e descrive il succo di giornate in cui una serie di minute circostanze avverse «ci costringono a buttare un occhio sull’oscuro rovescio delle cose, là dove tutto è gelo e orrore». Espressione e significato della medesima espressione, continua Landolfi, vanno ricondotte all’avviso «di quell’antico astronomo che stimava esser la faccia celata della luna al tutto cava (egli anzi ne inferiva che ciò sarebbe servito un giorno alle potenze celesti per incenerirci, rivolgendosi l’astro su se stesso e ardendo a mo’ di specchio ustorio l’intero nostro globo)». La conclusione: «Immaginate dunque se giraste la faccia piena e splendente della luna, paragonabile agli avvenimenti e alle azioni della nostra vita giornaliera, e vi ritrovaste sull’orlo del baratro buio e freddo!». In prosa dunque, Landolfi guarda la luna di Leopardi e la sa cava, sporca dietro, spesso malevola: ne descrive gli effetti; in poesia sembra piuttosto parlare dal baratro che s’apre dietro al dritto della luna: quindi non vede il pianeta, vede però il rovescio del quotidiano, l’abisso: quel che gli interessa di dire, nella maniera più libera e innocente possibile, con la poesia.
Da questa posizione, forse, riscrive e ci suggerisce di aver riscritto volutamente il Canto notturno “senza luna”. Di essa, per semplice cambiamento di prospettiva, non può dire alcunché. E dal «crepuscolo» gli è anche impossibile stabilire se il pianeta abbia o no compiuto il suo rivolgimento su se stesso, e, ardendo, abbia finalmente incenerito la terra.
 

da «Nostro lunedì», n.s., 1, 2012, pp. 42-44.