Landolfi inventore di lingue

di PAOLO ALBANI

 
 

1.   Non fa meraviglia che uno scrittore come Tommaso Landolfi si sia cimentato nell’invenzione di lingue considerando che ha allestito il suo personalissimo stile ponendo grande attenzione al linguaggio, preso tra il mascheramento di una lingua alta ottocentesca del tutto letteraria e un tono discorsivo basso che rimanda al parlato (apparente dicotomia messa in luce da Gianfranco Contini che definì Landolfi un «ottocentista eccentrico in ritardo»), con un uso originale e suggestivo di letterarismi, arcaismi, toscanismi, neoformazioni e particolari allomorfi(1).
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Autoantologia landolfiana – Quattro contributi

di ANTONIO PRETE
 

 

La piccola silloge che qui si propone offre un quadro d’insieme complesso della figura di Tommaso Landolfi. Quasi a ricostruire le tappe di un dialogo tra l’autore e il suo lettore d’eccezione, Antonio Prete, questi scritti eterogenei sono accomunati da un’identica, appassionata volontà interpretativa.
 

 

 
COSMOGRAFIE LANDOLFIANE
 

 
Fisica e metafisica lunare
 

La cosmografia dei romantici dava allo stupore uno sfondo metafisico, trasformando la contemplazione in interrogazione ultima: il notturno lunare era il teatro di una esplorazione dell’interiorità o, come accadeva meravigliosamente in Leopardi, lo spazio scenico di una meditazione sulla transitorietà dell’uomo e delle cose. Acquisto di un punto di estrema lontananza dal quale osservare l’insignificanza del mondo. La cosmografia di Landolfi accoglie la tensione metafisica e interrogativa delle poetiche romantiche, ma ne svolge, amplificando fino alla consapevole maniera e all’artificio, la tessitura ironica, teatralmente grottesca, e insieme perturbante. Un dialogo assiduo con la cosmografia leopardiana agisce nella scrittura di Landolfi. E infatti la leopardiana oscillazione, o meglio tensione, tra affabulazione e parodia, tra modi fantastici e ansia metafisica diventa in Landolfi la misura di uno stile e di una ricerca. Per questo il giudizio del Signor Giacomo Leopardi è messo in scena, con una filosofica mimesi di scrittura, in appendice alla Pietra lunare, il bellissimo racconto del ’37. La luna landolfiana è osservata, leopardianamente, nella sua ambivalenza: divina e familiare, enigmatica e prossima, sovrana e compagna. È su questo sfondo che prende forma la dimensione ctonia, oscura, dell’elemento lunare. La sovranità pensosa e amicale della luna leopardiana nella Pietra lunare è in certo senso umanizzata e insieme animalizzata, cioè è portata verso la terrestrità corporea dell’amore. Gurù è certo una creatura lunare, che si muove in relazione costante con il sorgere e tramontare della luna, ma è anche, come in un teatro gnostico, emanazione corporea della divinità lunare. Figura della compresenza di luce e oscurità che è propria della luna: angelo e demone. La rappresentazione del fantastico, da Poe a Hoffmann a Gautier a Dostoevskij a Maupassant – è questa una sezione della biblioteca landolfiana – ha sempre mostrato l’estraneo come familiare, il misterioso come prossimo e transitabile: l’effetto, freudianamente, come ormai diciamo, della perturbante compresenza diventa elemento di tensione propria del fatto narrativo. La luce lunare di Landolfi non vela e rivela le cose, come quella leopardiana, non è, contemporaneamente, nascondimento e rivelazione, ma è una luce per così dire “maladive” – analoga in questo al profumo dei baudelairiani Fiori del male – e per questo avvolge le cose, come accade nel racconto L’impero della luna (nel Principe infelice) in un bagliore di diamanti che però è come una grande nebbia: tutto è irreale in quello scintillio d’alabastro, in quell’abbaglio vitreo, e gli abitanti sono malati di chiardilunaMaladive è la luce lunare, ma quella solare può essere mortale: nel racconto Colpo di sole l’abbaglio della luce che sopravviene è descritto dal punto di vista della civetta, che via via, dissipandosi l’oscurità, è invasa da nausea e malinconia e strazio finché non “sprofonda nella luce bianca della morte”.
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L’azzardo felice – il “Preferirei di sì” di Tommaso Landolfi

di VALENTINA GIANFRANCESCO
 

 

Qualche mese fa lo scrittore americano Philip Roth, quasi ottantenne e con trentuno libri alle spalle, ha dichiarato la sua resa bartlebyana alla penna.
Un post-it sul suo computer gli annuncia che la lotta con la scrittura stava volgendo a una conclusione  e che d’ora in avanti, finalmente, avrebbe potuto “godersi la vita”. «So che non riuscirò più a scrivere bene come scrivevo prima. Non ho più la forza per sopportare la frustrazione. Scrivere è una frustrazione, una frustrazione quotidiana, per non parlare dell’umiliazione». Quasi a voler giustificare il proprio gesto, Roth elenca le pene del mestiere di scrittore e ricorda un cavaliere in pensione, il cui destino, ormai tristemente segnato, lo consegna a una vecchiaia tutto sommato tranquilla in compagnia della sua spada spezzata.
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Due “miserie” a confronto nel carteggio tra Elsa Morante e Tommaso Landolfi

di DANIELE VISENTINI
 

 

Dal volume “L’amata. Lettere di e a Elsa Morante”, a cura di Daniele Morante (Torino, Einaudi, 2012, € 30,00), una lettura del carteggio con Tommaso Landolfi e una riflessione sui numerosi spunti che questo offre: dallo spaccato sulla crisi personale dello scrittore alle confessioni intime sul senso dell’amicizia e della letteratura.

 
 

Costante fondamentale dell’opera di Elsa Morante, dagli esordi sino all’ultimo romanza, Aracoeli, è una tensione poetica (o, più correttamente, mitopoietica) alla cui fonte si situa una presa di coscienza drammatica sul reale, con i suoi attributi di sfuggevolezza e precarietà. Dove l’illimitato mondo esterno minaccia di continuo il sacrificio dell’espressività individuale, la finzione letteraria isola invece la porzione più pura dell’io, trattenendola nello spazio della pagina e garantendole, paradossalmente, il massimo grado di libertà. Così inteso, l’estro creativo assume un carattere spontaneo e affrancante e, nel contempo, una parvenza di mistificazione. Come gli occhi di un bambino (non a caso l’infanzia è sempre al centro dei suoi libri), gli occhi di Elsa vedono e inventano. Lungi dall’essere un semplice mezzo espressivo, come nel linguaggio degli adulti, la finzione è il fine cui l’afflato poetico della Morante s’indirizza, onde realizzare una palingenesi completa, per quanto illusoria, del proprio orizzonte esistenziale. È ciò che suggerisce, in modo non poi così implicito, lo stesso rivolgimento in versi Alla favola che dà avvio al primo romanzo della giovane autrice, quel Menzogna e sortilegio il cui titolo può funzionare da chiave di volta per la sua intera parabola letteraria:
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Si propone qui di seguito il testo presente nel risvolto a “Diario perpetuo”, a cura di Giovanni Maccari, Milano, Adelphi, 2012. Il volume raccogli gli elzeviri composti da Tommaso Landolfi tra il 1967 e il 1978.

 

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Copertina di “Diario perpetuo”

Fantasie che prendono improvvisamente corpo diffondendo un odore di morte, inspiegabili visioni notturne di un volto umano librato contro un angolo della stanza e la falla sempre in agguato nel tessuto delle apparenze; esistenze che si trascinano per mera forza di volontà o per assurda scommessa come a un tavolo di chemin de fer e il vano tentativo di contrastare il tempo che «reclama con ansia ed angoscia accadimenti»; l’impossibilità di trovare il chiarimento che cerchiamo e la volontà di morte «quale unica possibile dignità, in fondo a ciascun uomo». Sono i motivi fascinosi e allarmanti che subito ci afferrano allorché leggiamo gli elzeviri landolfiani apparsi sul «Corriere della Sera» fra il 1967 e il 1978, e che avrebbero dovuto comporre – se non fosse sopraggiunta la morte dello scrittore – un volume da af­fiancare a Un paniere di chiocciole (1968) e Del meno (1978). Beffardi pezzi di prosa, «innocenti raccontini», amari fram­menti di memoria ai quali è affidato l’assoluto disincanto di un Landolfi che ormai ritiene occorra «una tal quale dose di follia per raccontare una storia», ma non sa e non può rinunciare all’ultima sua risorsa: la scrittura nella sua chimica, provocatoria purezza.