Due “miserie” a confronto nel carteggio tra Elsa Morante e Tommaso Landolfi

Due “miserie” a confronto nel carteggio tra Elsa Morante e Tommaso Landolfi

di DANIELE VISENTINI
 

 

Dal volume “L’amata. Lettere di e a Elsa Morante”, a cura di Daniele Morante (Torino, Einaudi, 2012, € 30,00), una lettura del carteggio con Tommaso Landolfi e una riflessione sui numerosi spunti che questo offre: dallo spaccato sulla crisi personale dello scrittore alle confessioni intime sul senso dell’amicizia e della letteratura.

 
 

Costante fondamentale dell’opera di Elsa Morante, dagli esordi sino all’ultimo romanza, Aracoeli, è una tensione poetica (o, più correttamente, mitopoietica) alla cui fonte si situa una presa di coscienza drammatica sul reale, con i suoi attributi di sfuggevolezza e precarietà. Dove l’illimitato mondo esterno minaccia di continuo il sacrificio dell’espressività individuale, la finzione letteraria isola invece la porzione più pura dell’io, trattenendola nello spazio della pagina e garantendole, paradossalmente, il massimo grado di libertà. Così inteso, l’estro creativo assume un carattere spontaneo e affrancante e, nel contempo, una parvenza di mistificazione. Come gli occhi di un bambino (non a caso l’infanzia è sempre al centro dei suoi libri), gli occhi di Elsa vedono e inventano. Lungi dall’essere un semplice mezzo espressivo, come nel linguaggio degli adulti, la finzione è il fine cui l’afflato poetico della Morante s’indirizza, onde realizzare una palingenesi completa, per quanto illusoria, del proprio orizzonte esistenziale. È ciò che suggerisce, in modo non poi così implicito, lo stesso rivolgimento in versi Alla favola che dà avvio al primo romanzo della giovane autrice, quel Menzogna e sortilegio il cui titolo può funzionare da chiave di volta per la sua intera parabola letteraria:

Di te, Finzione, mi cingo,
fatua veste.
Ti lavoro con l’auree piume
che vestì prima d’esser fuoco
la mia grande stagione defunta
per mutarmi in fenice lucente!

L’ago è rovente, la tela è fumo.
Consunta fra i suoi cerchi d’oro
giace la vanesia mano
pur se al gioco di “m’ama non m’ama”
la risposta celeste
mi fingo(1).

Mistificazione e mitopoiesi, menzogna e sortilegio, rappresentano i termini d’una endiadi. Poiché la letteratura è spazio condiviso dalla favola e dal mondo, ogni tentativo di scindere le componenti autobiografiche e di ricognizione fantastica che ne compongono la soluzione è destinato al fallimento.
Tenendo conto di una simile compromissione tra pagina e vita, si comprende bene come L’Amata. Lettere di e a Elsa Morante costituisca ben più di un libro per specialisti, di un documento parzialmente inerte edito per smania d’accumulo informativo. Frutto di uno scavo minuzioso compiuto da Daniele Morante nell’immenso corpus dell’epistolario morantiano, il volume festeggia i cent’anni dalla nascita di Elsa mettendo a disposizione dei lettori la sua parola viva, quella parola che fa tutt’uno con la parola di Elisa(2), con la parola di Arturo e con quella del Manuel bambino liberato dal ricordo d’Aracoeli.
Duplice, inoltre, è il filo che lega l’esperienza umana della Morante – e perciò queste lettere che ne danno testimonianza – alle sue creazioni letterarie. Per una sorta di processo osmotico, il passaggio dalla vita alla favola si compie pure in senso inverso, e riguarda stavolta i lettori. Per dirla altrimenti, il mondo letterario della Morante è predisposto all’incursione dell’ “altro”, al suo coinvolgimento; è, se si vuole, un mondo che per assumere veramente senso ha bisogno di essere comunicato e compreso, come di essere compresa ha bisogno la sua artefice. Questo è il senso di quanto Elsa confessa a Luchino Visconti in una delle lettere più toccanti dell’intera raccolta: «Quel primo libro che scrissi», dice a proposito di Menzogna e sortilegio, «in fondo lo scrissi come una lettera per gli altri, che aspettava una risposta. La cosa più grande che cercavo per me nella vita credo che era questa: l’amicizia»(3). Nonostante le mutate condizioni storiche ed esistenziali, anche le opere successive della Morante, come quella prima, troveranno il loro senso più alto in una inesausta richiesta, a tratti flebile, a tratti lacerante, delle risposte che il mondo si ostina a rimandare. E se il libro è una lettera aperta al mondo, non è difficile credere che a loro volta le lettere compongano, snodandosi lungo l’arco della vita di Elsa, un vero libro: il libro cui finalmente gli altri, gli amati, gli amici, rispondono.

 

D’altronde, scorso l’indice dei nomi, si scopre con meraviglia quanto numerosi furono tali amici, e quanto noti. La rivelazione della scrittura privata di Elsa Morante, difatti, apre uno spaccato di grande interesse su parecchie figure centrali del Novecento, quali fra gli altri Saba, Bertolucci, Penna, Pasolini, Giudici, Savinio, l’Ortese, oltreché, com’è ovvio, Alberto Moravia.
A sorprendere specialmente, in questo affollato regesto di corrispondenti, è tuttavia la presenza di un altro narratore che, del pari e in molti sensi al contrario della Morante, ha segnato le sorti della letteratura novecentesca. Si tratta di Tommaso Landolfi, il quale compare per la prima volta nel 1948 come destinatario di una breve missiva della Morante, accompagnata da una copia dell’Isola di Arturo, e che però soltanto dieci anni più tardi intavolerà un carteggio vero e proprio con la scrittrice. La ricerca di Daniele Morante, infatti, ha reso possibile la pubblicazione di otto lettere (delle quali la metà spedite da Landolfi) risalenti al periodo compreso tra il 30 settembre 1957 e il 12 giugno 1967.
Ora, che l’accostamento tra Landolfi e la Morante suoni, se non inaudito, almeno molto insolito, è dovuto a una forte divergenza dei due nell’approccio alla scrittura. Tutto quanto detto per la Morante circa l’intima relazione tra finzione letteraria ed esperienza concreta, o ancora circa l’urgenza di redenzione sottesa alla creazione poetica, non solo non vale a inquadrare il pensiero landolfiano, ma è da quest’ultimo in buona parte smentito.
Per dare un saggio dell’effettiva distanza tra i due autori, si vogliono trascrivere di seguito alcuni versi tratti da Viola di morte, i quali sembrerebbero rispondere alla placida e rivitalizzante, quantunque fatua invocazione della Morante, denunciando lo scacco della parola e del suo significato:
 
È vana la parola e non ci assiste
Quando, a colmare il cuor nostro, vorremmo
La liquida vertigine dei tasti,
Le matasse degli archi,
Le cacce degli ottoni.
Oh misera parola, grave
Di definite significazioni,
Negata a libertà, d’inferno schiava(4).
 
Se con la parola la Morante tenta di costruire l’incostruibile, di dare un senso all’insensatezza del reale, Landolfi mantiene un atteggiamento critico sia verso il mondo esterno, sia in rapporto al linguaggio. «Niente di tutto quello che ho detto è vero», avverte allora l’autore in clausola a un racconto; e significativamente aggiunge: «Non perché non sia vero, ma perché l’ho detto»(5).
Con la natura organizzatrice che le è propria, la parola notomizza il reale privandolo di senso e vitalità. È soprattutto nella tensione originata tra una simile consapevolezza e un’esigenza creativa indomabile che si genera tutta la potenza evocativa della scrittura landolfiana: se da una parte la felicità narrativa del Racconto d’autunno o l’affermazione della pratica letteraria contro i limiti d’ogni teoria, ravvisabile negli articoli pubblicati negli anni Cinquanta su «Il Mondo», danno prova di una resistenza alla dispersione totale del senso, dall’altra Tommaso Landolfi non smette di alimentare una cupio dissolvi il cui apice consiste in una sorta di reiterato elogio al silenzio(6).
Proprio verso una parziale rinuncia alla parola sembra procedere Landolfi negli anni del contatto con la Morante. Il biennio 1957-’58, in effetti, segna un momento di svolta nella vita e nella produzione dello scrittore: da poco sposatosi, e al solito assediato dal vizio del gioco, egli affronta gravi difficoltà economiche; i rapporti con l’editore Vallecchi, tesi già da tempo, giungono ora a un passo dallo snervamento; l’instabilità geografica di Landolfi, che continua a spostarsi tra l’abitazione di Pico e quella di Sanremo, non garantisce inoltre serenità alle sue condizioni psicologiche e lavorative. A documentare gli sviluppi di una simile impasse e a permetterne il superamento, mediante una spregiudicata confessione dei propri dubbi esistenziali e letterari, è quel cupo memoriale d’inesistenza(7), Rien va, steso tra il giugno del 1958 e il maggio di due anni dopo.

 

Nel carteggio con Elsa Morante lo scrittore introduce alcuni spunti argomentativi che precisamente in Rien va giungeranno a maturazione.
Sotto questo punto di vista, la lettera che si rivela più interessante è la sua prima. In essa Landolfi, che ha da poco letto L’isola di Arturo, mostra una sincera ammirazione per le doti narrative della Morante: con la sua bellezza, il libro è riuscito a distrarlo dalle sue recenti preoccupazioni, e non solo. Quasi una rivelazione subitanea lo ha colto, a seguito della lettura: «A me è avvenuto come a un calzolaio […] di qui, che, vedendo sul giornale i numeri del lotto già usciti, esclama: “E pensare che son numeri così facili!”». Anche qui Landolfi utilizza il parallelismo tra la vita e il gioco d’azzardo, come spesso fa nei suoi libri, per evidenziare l’impossibilità di un controllo concreto sui meccanismi che regolano l’esistenza umana; se il gioco si esprime per il solo tramite di una volontà di potenza(8), del pari la vita è inesausta scommessa, ovvero imposizione del proprio anelito al di là di ogni esito finale, vincente o fallimentare che sia. Considerando L’isola di Arturo alla stregua di un numero indovinato, Landolfi non si sofferma quindi sui risultati, bensì «su ciò che li ha resi possibili».
Per spiegare questo ultimo punto è forse utile citare una pagina di Rien va in cui Landolfi, definendo i concetti di “Stato perdente” e “Stato vincente”, giunge a una conclusione oltremodo interessante sulla natura della volontà umana. Secondo lo scrittore:
 
Un certo stato del giocatore comporta senza fallo, senza margine di errore e con assoluta, matematica e ben più che matematica certezza la vincita; un altro stato con non minore grado di sicurezza la perdita, e così via. Dicesi stato generale e profondo, non relativo soltanto al gioco, ma a tutto; ossia sentimento del mondo(9).
 
È il «sentimento del mondo» della Morante ciò su cui Tommaso Landolfi punta al massimo la sua attenzione di lettore: il sentimento, cioè, che consente all’autrice dell’Isola di Arturo di plasmare le dinamiche della realtà esterna e d’adattarvi la finzione della favola, senza scarti. L’immediatezza e la felicità inventiva con cui Elsa costruisce gli intrecci dei propri romanzi sono sconosciute al suo amico. Egli, preso nel vortice di «giri gratuitamente istrionici»(10), non può infatti che concepire l’intrigo(11) come una difficoltà insormontabile; il suo rovello è uno, destinato a permanere irresoluto:
 
Dico: come o con qual forza trascegliere tra l’infinita varietà degli atti umani i veramente rappresentativi, gli indici, dei quali ciascuno riassumesse una categoria o un ordine di fatti? Di questa difficoltà di fondo io non sono mai venuto a capo in tanti anni(12).
 
La ragione dell’«infinita miseria» di Landolfi va individuata, allora, in questo perenne “Stato perdente” che gli impedisce di portare avanti i propri progetti letterari, nonché d’inviare qualche suo scritto a Elsa; la quale nota senza troppo imbarazzo la tendenza dell’amico a deprezzarsi e svela di percepire anch’ella, dentro di sé, una miseria «confusa e numerosa». Ma questo sentimento, per così dire, è di segno opposto rispetto a quello descritto da Landolfi: è commiserazione di una esistenza che, per acquisire valore, necessita d’essere reinventata. In tale ottica anche L’isola di Arturo è, in una volta, frutto della miseria e sperimentale antidoto a essa:
 
Per il mio capo, purtroppo, non passa che una confusa e numerosa miseria (per usare la Sua stessa parola). Non da altro che da una simile miseria […] è nata quella storia di Arturo, che, però, grazie a Dio, ha avuto il dono di piacerle. Miseria, allora, di riconoscermi adulta e sterile – e desiderio stravagante di essere un ragazzo.
 
Malgrado le differenze che le contraddistinguono – o proprio in ragione di esse –, dal rispecchiamento tra le “miserie” della Morante e di Tommaso Landolfi nasce una salda intesa, spinta sino allo sfogo di emozioni che, almeno per il secondo, solo di rado si rinvengono altrove. Per assecondare un genuino desiderio di comunicazione, l’eloquenza cui lo scrittore di Pico generalmente non sa torcere il collo(13) sembra qui farsi da parte. Indicativo, in tal senso, è l’irrazionale struggimento con cui Landolfi presenta il proprio stato d’animo:
 
Cara Elsa, mi par proprio d’essere allo stremo delle forze: non per un’arte nella quale non ho saputo fornire che prove mediocri e marginali, ma per una vita anche oscura, anche indegna, com’è la mia.
 
Dal canto suo, Elsa Morante soccorre lo scrittore col manifestargli un’ammirazione affatto incantata. Quando replica al suo scoramento, anzi, ella dimostra di carpire alcune costanti caratteriali che Landolfi medesimo si attribuirà nelle pagine dei diari. Si osservi ad esempio come Elsa, prevista una certa incredulità nell’interlocutore, già nella sua prima lettera scriva: «Forse, Lei, che ha scelto di vivere isolato, non ha presentemente, nel Suo isolamento, una precisa coscienza delle proporzioni: voglio dire delle Sue proporzioni, e quindi non può misurare l’importanza che ha avuto la Sua lettera per me». In seguito all’amara risposta dello scrittore, poi, ella si fa ancora più esplicita, sino a indovinare la propensione di Landolfi al volontario svilimento di sé e della propria opera:
 
Lei pretende ch’io le confermi la Sua dichiarazione: che Lei è autore di opere mediocri e marginali, mi sforzerò di confermargliela. Però non ci riesco: perché diavolo di motivo, insomma, Lei vuol essere quel che non è?
Si rassegni, insomma, a non essere né mediocre né marginale.
 
A distanza di soli sei mesi, un chiarimento su questo punto verrà offerto da una pagina di Rien va:
 
Di fatto sta che le qualunque forze della mia intelligenza son calate e quasi del tutto spente e che son giunto, come ho detto, a non avere spesso coscienza della mia condizione. Sarà un buon segno o un cattivo? Può l’avvilimento, l’avvilimento senso, non atto, menare a bene? Questa specie di rimbambimento è comunque il solo risultato per ora visibile(14).
 
Quell’inspiegabile avvilimento che lascia interdetta Elsa Morante, e di cui l’autore stesso rimarca i caratteri sfuggenti e contraddittori(15), è quindi condizione innata dell’indole landolfiana, ravvisabile tanto nelle sue opere quanto nella scrittura privata. E si vede bene come, al contrario di Landolfi che strappa le lettere prima d’inviarle, che ossifica la propria scrittura e l’avvilisce, la Morante invece fa scorrere con generosità parole su parole. Nella sua febbrile affabulazione, però, si insinua sempre il dubbio di non saper dire, di non trovare alcuno che la intenda(16). Anche da Tommaso Landolfi ella teme incomprensione, distacco, e lo fa capire con franchezza:
 
Così adesso sa pure quanto amo ricevere posta da Lei […] e ora che Le ho detto così, per la Sua naturale innocente contraddizione, forse Lei sarà avarissimo nello scrivermi e forse mi negherà il piacere. Ma io Le scriverò lo stesso, ché sono ormai tanto vecchia da essere guarita da certe innocenti contraddizioni.
 
Un mutuo bisogno di confronto, in conclusione, dà vita al breve, eppure intenso scambio epistolare. Da ogni stralcio di missiva si attinge il senso di quella vicendevole compassione, la specie più nobile e sofferta della simpatia, che sa restituire appieno il senso dell’amicizia. Il gioco delle citazioni reciproche, i progetti su un incontro reale tra i due, o ancora le dissonanze originate dal paragone tra la mobilità estenuata della Morante, che vola in Cina, in Persia, e il cupo isolamento di Landolfi: tutti questi elementi innescano un circuito di riflessioni eterogenee in cui vengono coinvolti, almeno a livello embrionale, il mondo e la sensibilità di ambo gli scrittori.
Gli spunti fin qui esaminati, d’altronde, sono appena un esempio dei tanti che potrebbero scovarsi in un carteggio significativo come questo. A vantaggio dei loro vecchi e nuovi lettori, si vogliono perciò proporre le lettere di Morante a Landolfi, rimandando al volume L’amata per le lettere scritte da Landolfi in risposta.
 

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LETTERE DI ELSA MORANTE A TOMMASO LANDOLFI (*)

 

 

 

Elsa Morante a Tommaso Landolfi– in busta affrancata da Capri indirizzata «presso il Caffè delle Giubbe Rosse» (FI) – ms

Fermo Posta – Capri (Napoli)
4 settembre 1948

Caro Landolfi
Siccome Alberto non ha saputo dirmi il Suo indirizzo di Firenze, Le ho fatto mandare una copia del mio libro(a) a Pico. Spero che Lei lo veda lo stesso, perché ci terrei moltissimo a che Lei lo leggesse. Il libro, come mi scrivono da Einaudi, Le è già stato spedito. Con molti auguri cari La saluto affettuosamente –

Elsa (Morante)

 

 

Elsa Morante a Tommaso Landolfi – in busta affrancata da Roma a Sanremo (reca indirizzo di Pico cassato) – ms

Via Archimede 161 – Roma –15 novembre 1957

Caro Tomm.
le dico, senza finzione, che per me è stato un gran giorno quello in cui ho ricevuto la Sua lettera. Non speravo, glielo confesso, nemmeno che lei leggesse il mio libro: invece lo ha letto, e l’ha stimato degno di una lettera come quella! grazie.
Purtroppo, per un caso che mi è sembrato quasi imperdonabile, ho potuto leggere la lettera solo con due mesi, circa, di ritardo! Il fatto è che, mentre una lettera simile (tale da consolarmi, davvero, di molta mia miseria) mi arrivava, io mi trovavo assurdamente lontano: le dirò: fra i Cinesi. Sono stata, dal 22 settembre fino a pochi giorni fa, in Cina. Uno di quei viaggi che adesso faccio – adesso che non amo più di viaggiare! – per ripagarmi dell’età in cui adoravo i viaggi, e non potevo farne. Si tratta, anche per questa cosa: i viaggi – di uno di quei soliti amori a dispetto che non danno soddisfazione, né prima né dopo.
Tornando al mio libro: sinceramente, senza superbia né modestia, io non so quale ne sia l’esatto valore. Ma ormai comincio a lusingarmi che esso abbia veramente un valore, se è piaciuto a Lei. Forse, Lei, che ha scelto di vivere isolato, non ha presentemente, nel Suo isolamento, una precisa coscienza delle proporzioni: voglio dire delle Sue proporzioni, e quindi non può misurare l’importanza che ha avuto la Sua lettera per me. [xxx xxx] ma per me è vanto straordinario questo: che il mio libro sia piaciuto a uno dei rari, [xxx] unici poeti che si contano oggi nel mondo. Mi piacerebbe di rivederla: ma so già che la mia ridicola, e ormai senile, timidezza, mi impedirebbe di parlare: così come mi ha impedito di scriverle diverse volte – quasi ogni volta che leggevo un Suo scritto – e che ci ritrovavo il segno di quella grande e straordinaria qualità, quasi unica oggi nel mondo. La ragione principale poi era, anche, che scrivendole avevo il sospetto di annoiarla – come ho ora, pure, questo sospetto. A ogni modo: non posso non approfittare di questa occasione per dirle che [xxx] l’uscita di ogni scritto di Tomm. Landolfi per me è un avvenimento mondiale. [xxx] Lei insomma è uno dei pochi autori che contano, per me, nella presente società umana – se ciò può importarle.
Adesso, poiché Lei nella sua lettera mi incoraggia a farlo [xxx], vorrei continuare qui su questo foglio questa mia insperata conversazione con Lei! dicendole, come Lei mi invita, ciò che mi passa per il capo. Ma per il mio capo, purtroppo, non passa che una confusa e numerosa miseria (per usare la Sua stessa parola). Non da altro che da una simile miseria (Le dirò – per rispondere a una Sua frase) è nata quella storia di Arturo, che, però, grazie a Dio, ha avuto il dono di piacerle. Miseria, allora, di riconoscermi adulta e sterile – e desiderio stravagante di essere un ragazzo. Quanto all’Asia, da cui torno ora, è un’esperienza terribile. Tutti qui si aspettano dai ritornanti, e da me dunque, delle dichiarazioni in proposito (dichiarazioni di un tipo giornalistico [xxx], opinioni, ecc.) e [xxx] si preparano a questo scopo delle riunioni, conferenze stampa ecc. [xxx]
Eravamo una delegazione di 7 persone. Fra queste, 2 (Carocci e il Generale Cadorna) sono due nasuti o nasetti come dice Alighieri, e cioè uomini dal grande naso. Nell’attraversare le città cinesi (quelle di provincia, che non vedono mai europei) una enorme folla di bambini e ragazzi accorreva da ogni parte intorno a noi ridendo pazzamente di quei due nasi (perché i Cinesi, come si sa, hanno invece naso piccolo, quasi impercettibile). E questo faceva nascere, almeno in me, una grande compassione di noi e di loro Cinesi. In breve, io pensavo: chi ha naso grande, e chi piccolo, e chi ha faccia, e chi muso, e chi proboscide, elitre, o zampe, o mani… insomma, tutti i viventi, uomini, animali ecc. si servono di tali varie risorse, mezzi, e soluzioni, per comunicare con la realtà – affrontarla… chi asiaticamente, e chi europeamente. E chi inventa un dio accosciato e chi ne inventa uno crocifisso. È un battersi continuo, da eroi. Ma la fine è sempre questa: che non se ne capisce nulla, in nessun luogo. Cioè: dell’essenziale nulla si capisce.
A Canton, molte migliaia di persone abitano nelle barche, sul Fiume delle Perle (a questo nome, ritorna quel desiderio stravagante, quanto inutile evidentemente per me, di essere un ragazzo). E a Bombay, un quinto della popolazione non ha camera, e dorme la notte stesa in terra sui marciapiedi.
Adesso, sono qui nella Via Archimede, che Lei conosce per esserci venuto una sera, fra molti gatti, al solito. Mi piacerebbe pensare di avere qui un’altra sua visita, un giorno o l’altro. E di conoscere la Sua moglie. Anche di vedere la Sua casa, che, fin dal tempo della giovinezza, è un mito. Molti me ne hanno parlato.
Ancora grazie, e si ricordi, ogni tanto, di me – Sua –

Elsa (Morante)

(O Arturo Gerace – scapolo – napoletano)
 

 

Elsa Morante a Tommaso Landolfi – acquisita in busta affrancata da Roma a Sanremo – ms

Via Archimede 161 – Roma
8 dicembre 1957

Caro Tommaso
ha fatto male a non spedirmi la lettera che mi aveva scritto: qualunque essa fosse. Ha fatto male, perché mi è CARO ricevere sue lettere, qualunque esse siano. E mi è caro perché anch’io, non meno di lei, vivo isolata: solo che io, non per mia scelta.
Nello scrivere quest’ultima frase, tremo: giacché lei[?] nella sua terribile diffidenza per l’intelligenza (la poca) altrui, sentirà forse nella mia frase suddetta un sapore, come dire ahimè?, compiaciuto di maledetto o di romantico! ahimè! Come farsi capire? E chi sa che diavolo Lei avrà capito nella mia lettera! per esempio: a proposito di quei nasi in Cina. Io volevo solo confidarle ( e non senza una certa vergogna) che il famoso viaggio in Cina non mi era risultato, purtroppo, che un’esperienza mediocre e marginale (per usare le sue parole stesse). Direi addirittura: che non mi aveva fatto né caldo né freddo, se non temessi, anche adesso, maledizione! ( vede, stavolta sono io a imitare il Suo stile) di incappare di nuovo nell’accusa già temuta poco fa.
Ah, ma come farsi capire? a meno di non mascherarsi da Arturi, o comunque, mascherarsi da qualche altro personaggio più plausibile di quanto io stessa non sia, è impossibile spiegarsi. In ogni modo, mi creda: se anche ho accettato di partire per la Cina con una delegazione quasi-ministeriale, non ho presunto, perciò, di vivere pericolosamente. E in verità: a differenza di Arturo, (giacché purtroppo io non sono lui) non ambisco a vivere pericolosamente; ma se lo ambissi, sarebbe ormai da parte mia un’ambizione sbagliata (così, ho citato anche io Moravia).
Insomma: non so in quale modo, e con quali diplomatici giri di frase, arrivare a dirle, e a farle credere in tutta semplicità, che anche per me la tentazione si farebbe sempre più forte. Adopero il condizionale (si farebbe) giacché più forte della tentazione, a quel punto là, è il sospetto: che al di là ci siano altre voci altre stanze(b) (seconda citazione letteraria: ma è un bel titolo). Quando invece l’esigenza che mi inviterebbe là, sarebbe: basta con le voci e le stanze, più nessuna voce e nessuna stanza e basta. Ma siccome forse dalle voci e dalle stanze non si può fuggire, tanto vale tenersi a queste. Tanto più che, almeno per quanto mi riguarda, qua almeno io dispongo di un lusso: due stanze per me sola. Chi sa che invece di là (intendo: all’altro mondo) non mi sia inflitta una coabitazione (come accade nei paesi progressisti che ultimamente ho visitato: se tali (progressisti) saranno anche l’Inferno e il Paradiso, come forse è presumibile).
E adesso, o stimatissimo dottor Landolfi, caro amico mio Landolfi, per favore, consideri un attimo la mia qualità, e mi dica: come può supporre in me l’atroce creanza d’intendere di dirle delle buone parole?! in nome di Dio e per favore, si consideri un attimo e ragioni. Ma tuttavia, se per Suo gusto Lei pretende ch’io le confermi la Sua dichiarazione: che Lei è autore di opere mediocri e marginali, mi sforzerò di confermargliela. Però non ci riesco: perché diavolo di motivo, insomma, Lei vuol essere quel che non è?
Si rassegni, insomma, a non essere né mediocre né marginale [in nota: casomai il suo difetto sarebbe altro e opposto, come forse Le direi se ne avessi confidenza] ma ora non creda (ancora, per carità) che io qui intenda con ciò di esortarla: scrivi, o Poeta, esprimiti, o qualcosa di simile: No, la mia convinzione è che ciascuno deve fare solo quel che gli pare e di cui ha voglia. Per cui, se, e quando, non ha voglia di scrivere, non scriva. Tanto, qualsiasi cosa noi scriviamo, agli altri poi non ne importa nulla. E a proposito, che cosa sta a fare là a S. Remo? Giocare alle carte?
Ecco: come ora vedrà, io non temo di spedire le lettere che scrivo, anche se, non dico selvagge, che non sono, ma immediate e sincere certo. Magari non saprò mai spiegarmi, ma la sincerità è quel che conta, AL POSTUTTO.
Così adesso sa pure quanto amo ricevere posta da Lei (che anzi considero quasi una gloria per me ricevere posta dal Landolfi: e ora che Le ho detto così, per la Sua naturale innocente contraddizione, forse Lei sarà avarissimo nello scrivermi e forse mi negherà il piacere. Ma io Le scriverò lo stesso ché sono ormai tanto vecchia da essere guarita da certe innocenti contraddizioni). Ora La saluto.
Qua, freddo, gatti, asiatiche, poca – o nessuna – gente con cui stare. La sera, trattorie romane.
E là?
Chiudo: caro Landolfi, si ricordi di me, che La ricordo. –

affma – Elsa Morante

P.S. Valetudinario, Lei dice, nella lettera, di sé stesso. Di che, valetudinario? Voglio dire: non sta bene, ha qualche malattia? Non è per sollecitudine o creanza (non fraintenda così, per carità) che glielo chiedo: ma solo per curiosità.
 

 

Elsa Morante a Tommaso Landolfi – acquisita in busta affrancata da Roma a Pico, e di qui inoltrata a Roma – ms

Via Archimede 161 – Roma
28 aprile 1958

Caro Tommaso –
da mesi non so più niente di Lei: voglio dire, da Lei direttamente. Aspettavo l’invio promesso di un atto di una sua tragedia(c), che avrei amato leggere. Ma non ho visto arrivare nulla, e ormai non sapendo più se Lei è ancora a S. Remo o no, Le invio questa a Pico.
In questa epoca di angoscia, i mesi passano con una fretta innaturale. Così questa lettera, che volevo scriverle già a Gennaio, gliela scrivo oggi soltanto.
Novità mie, da raccontarle, non ne ho (direi: per fortuna). Una novità: che sono diventata una guidatrice d’auto(d). Se un giorno passassi da Pico, e se non avessi la coscienza che Lei preferisce farsi negare, potrei salutarla?
A ogni modo, Le invio intanto il mio saluto qui scritto. Così se Lei ha voglia di rispondermi, potrò sapere dove si trova ora e dove Le si può scrivere. La sua affezionata amica –

Elsa Morante

 

 

Elsa Morante a Tommaso Landolfi – acquisita in busta affrancata da Roma a Pico, donde inoltrata a Sanremo. – ms

Via Archimede 161 –
Roma – 20 nov. 58

Caro Tommaso
Avrei tante cose da dirle, e che nel presente secolo, nei luoghi oggi possibili, si potrebbero forse dire solo a Lei (o c’è qualcun altro?) Ma, sia pure senza rassegnazione, so già con certezza che si parla sempre d’altro. Perciò, Le parlerò d’altro, ma non rinuncerò, a ogni modo, a scriverle – coprendo questo foglio di parole che, sebbene, purtroppo, convenzionali, si rivolgono tuttavia a Lei – per ricordarle che La ricordo e che, se per qualcuno provo dell’amicizia, quest’uno è Lei. È un’amicizia, come dire, un po’ faticosa, nel senso che, al momento stesso che Le parlo, pavento il Suo giudizio sulle mie parole. Avrei voglia di vederla sotto altro aspetto che di giudice, ma per ottenere questo dovrei prima di tutto guarire del mio senso di colpa – guarigione da sempre assai difficile, e ormai forse impossibile per me.
Ecco, dunque, alcune parole convenzionali che qui Le scrivo, e che, La prego di credere, Lei dovrebbe intendere nel loro significato originario, e cioè non come frasi di convenienza, ma come pura verità, giacché, da me rivolte a Lei, sono la pura verità; dunque: La ricordo spessissimo, parlo spesso di Lei con chi lo merita, e sempre, quando ne parlo, è per nostalgia di rivederla. Avrei, difatti, grande desiderio di rivederla, ma so, con certezza che a Lei, rivedere qualcuno, dà forse solo un senso di fatica e di superfluità, e anche di fastidio. Per cui rinunzio a qualsiasi azione (che pure in se stessa sarebbe così facile!) volta a rivederla, e a stare un poco in Sua compagnia.
Una volta Lei mi scrisse: quando Le viene in mente di scrivermi, mi scriva. Tante volte mi è venuto in mente, ma il mio senso di colpa me ne ha trattenuto. Quale colpa? Ah, non lo so: o meglio, forse, non so da dove incominciare. Prima colpa: quella di parlare sempre d’altro. Seconda: la timidezza o pesantezza, o goffaggine. («L’impossibilità di comunicare»). Si vorrebbe che una lettera a un caro amico fosse una specie di poesia miracolosa, che partisse e arrivasse nel momento giusto, e dicesse le cose che l’amico vorrebbe ascoltare in quel preciso momento. Da ragazzi ci si diceva che ogni giorno c’era un unico attimo (difficile ad afferrarsi e indovinarsi) in cui «passava l’angelo». Si vorrebbe indovinare quell’attimo [xxx] e, là, scrivere a un amico. Ma probabilmente quel famoso araldo non passa mai, o comunque non si fa sentire.
Dunque, si parla d’altro. Sono stata in Persia per circa venti giorni (a riparlarne, anche questo viaggio mi sembra una delle mie colpe). Da ragazzetta bramavo di viaggiare, e come succede, i desideri della gioventù, quando sono stati troppo ardenti, si attuano in vecchiaia. Così in questi ultimi anni scorsi, ho fatto tanti viaggi orientali. Questo della Persia è stato forse il più grave – una quasi terribile esperienza. È tutto come al tempo di Serse – o di Maometto – ma senza più speranza, e una grande miseria. Qua e là, poi, delle visioni meravigliose, come Isfahan e Persepoli. Dovunque, intorno, l’onore[?] della natura, scoperto, fuori da ogni storia, e, sopra, l’industria del petrolio e le macchine americane.
Questo viaggio in Persia è stato l’unico avvenimento degno di nota per me in quest’anno; ma non ho certo intenzione di scriverle una lettera persiana. E dunque, che altro? Nient’altro, direi. Budda mette fra i grandi dolori della specie umana la sete di vita. Il giorno che sarò guarita da questo massimo fra i dolori, forse avrò molte più cose degne d’essere raccontate.
Ammettendo poi che a Lei possano importare certi racconti. Poi a questo punto cadrebbe la domanda: E Lei? che cosa mi dice, di Lei? Ma purtroppo anche questa domanda, detta così, suona falsa. E invece, secondo il solito, detta da me a Lei, è vera. Mi sarebbe caro, insomma, avere Sue notizie. Ma è vero, ci sono i Suoi libri. ce n’è uno, recente(e), che mi preparo ora a leggere.
«Hanno i suoi libri – Leggano quelli!»
Dunque, caro Landolfi, a rivederci (si dice sempre a rivederci così tanto per dire). Del resto, poi, forse ha ragione Lei: rivedersi non serve proprio a niente, giacché tanto, anche in quel caso si parla di niente. Fino ad oggi, le conversazioni più rilevanti che ho avute, le ho avute con la mia gatta Pamela: la quale però, dopo quasi 15 anni che sta con me, si è ammalata ormai di vecchiaia. Un altro gatto, Cincione, che mi era caro, mi ha tradito per sempre, preferendo a me la mia domestica tedesca.
Ah, Dio del ciel, ah, Dio, ah, Dio del ciel
Tu pur mi fosti, Cincione, infedel.
Mi ricordi, caro Tommaso. La saluta la sua lontana amica – Elsa (Morante) – (non più Arturo)

 

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NOTE ALL’INTRODUZIONE

 

(1)E. MORANTE, Menzogna e sortilegio, in EAD., Opere, vol. I, a cura di C. Cecchi e C. Garboli, Milano, Mondadori, 2001, p. 5.
(2) A proposito di Menzogna e sortilegio, la consustanzialità della protagonista Elisa e di Elsa, al di là della mera coincidenza tra gli episodi narrati e la vita dell’autrice, è evidenziata da Sgorlon, per il quale la Morante, «non meno legittimamente di Flaubert, potrebbe ripetere: Elisa sono io» (C. SGORLON, Invito alla lettura di Elsa Morante, Milano Mursia, 2012, p. 44).
(3) Lettera di Elsa Morante a Luchino Visconti del 12 gennaio 1953, in MORANTE, L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di D. Morante, Torino, Einaudi, 2012, p. 252.
(4) T. LANDOLFI, Viola di morte, Milano, Adelphi, 2011, p. 60.
(5) LANDOLFI, La muta, in ID., Opere II (1960-1971), a cura di I. Landolfi, Milano, Rizzoli, 1992, p. 449.
(6) Circa l’anelito al silenzio, si legga la conclusione della poesia già citata da Viola di morte: «Scaricare la soma che ci ingombra / E il terrore dell’ombra, / Nulla significare, nulla dire: / Tale forse il supremo atto d’amore» (in LANDOLFI, Viola di morte, cit., p. 60).
(7) La definizione è presa in prestito da G. GUSDORF, Lignes de vie 1. Les écritures du moi, Paris, Odile Jacob, 1991, p. 381.
(8) Piuttosto, sarebbe corretto dire che con tale volontà di potenza il gioco s’identifica appieno (cfr. LANDOLFI, Rien va, Milano, Adelphi, 1998, p. 46).
(9) Ivi, p. 132.
(10) Ivi, p. 16.
(11) Si ripropone il termine utilizzato da Landolfi stesso in Rien va, quand’egli dichiara: «l’intrigo è sempre stato la mia difficoltà insormontabile, e sempre ho invidiato Gogol’ che (incerto moralmente quanto me) fu soccorso da Puškin, si dice: datemi un intrigo e vi solleverò il mondo, e mi basta una storia qualunque, giacché poi non è la storia che conta, benché necessaria» (ibid.).
(12) Ivi, p. 15.
(13) Si rimanda all’epigrafe del racconto Colpo di sole, contenuto nella raccolta La spada; essa, storpiando un verso di Valéry, recita: «A l’éloquence ne tords pas son cou» (LANDOLFI, Opere I (1937-1959), a cura di I. Landolfi, Milano, Rizzoli, 1991, p. 349). In buona parte il sentimento di diuturna sconfitta provato da Landolfi si deve proprio al predomino dell’eloquenza sui significati; si osservi, su tutte le altre pagine in cui tale argomento affiora, quella de LA BIERE DU PECHEUR in cui Landolfi scrive: «Sono […] stanco di questa mia scrittura, giacché stile non si vuole chiamare, falsamente classicheggiante, falsamente nervosa, falsamente sostenuta, falsamente abbandonata, e giù con tutte le altre falsità; possibile che io non sappia arrivare a una onesta umiltà e che le frasi mi nascano già tronfie dal cervello come Pallade armata dal… ecco che ci risiamo?» (LANDOLFI, LA BIERE DU PECHEUR, in Opere I (1937-1959), cit., p. 650)
(14) Rien va, cit., p. 20.
(15) L’avvilimento, infatti, è definito da Landolfi anche come «ascesi senza conforto e senza respiro», ovvero come «ascesi a rovescio o passiva» (ibid.).
(16) Anche in questo caso, Landolfi si pone agli antipodi rispetto alla Morante: egli non sa che cosa dire, pur sapendo perfettamente come farsi comprendere. I motivi stessi che lo spingono alla composizione di Rien va, a detta sua, sono l’urgenza di non scegliere le parole e il bisogno di non essere inteso (ivi, pp. 10-12).

 

 

NOTE ALLE LETTERE (A CURA DI DANIELE MORANTE)

 

(*) Le lettere sono trascritte così come si trovano nel volume a cura di Daniele Morante. Oltre alle sottolineature e ai caratteri maiuscoli presenti nei testi originali, vengono qui riprodotte anche le indicazioni delle cruces.
(a) Si tratta naturalmente di Menzogna e sortilegio.
(b) Il riferimento è al romanzo di Truman Capote Other Voices other Rooms, del 1948, pubblicato in Italia da Garzanti nel ’49.
Supra, A. MORAVIA, Le ambizioni sbagliate, Bompiani 1935.
(c) Landolfi stava scrivendo la tragedia storica Landolfo VI di Benevento, poi uscita da Vallecchi nel 1959.
(d) In quel periodo Elsa, conseguita la patente di guida, aveva acquistato un’utilitaria, una «Morris» di vecchio modello, con cui usciva qualche volta fuori porta o si avventurava in brevi escursioni. Ben presto l’auto, anche in seguito a un lieve incidente, finì confinata per lo più in un garage, da dove non uscì più dagli ultimi anni ’60.
(e) L’ultimo libro pubblicato da T. L. era Ottavio di Saint-Vincent, Vallecchi 1958.