Dall’Introduzione a La lingua-pelle di Tommaso Landolfi

 

 
La lingua, sfinge che incanta l’intera opera narrativa landolfiana, palese chimera inseguita durante la stesura dei diari, è soggetto fondamentale alla decifrazione del “personaggio” e dell’uomo Landolfi. Non solo e non tanto la lingua in falsetto, artata, manierata, e come tale studiata nel cavo di ogni sua piega allo scopo di realizzare una prosa unica per accuratezza e complessità del vocabolario, bensì una lingua più concretamente falsa; una lingua (come lo stesso Landolfi ebbe a definirla nella BIERE) «falsamente classicheggiante, falsamente nervosa, falsamente sostenuta, falsamente abbandonata»: falsa in tutti i sensi, dunque falsa per vocazione. Dove all’aggettivo in questione non si fornisse un mero significato negativo – che d’altronde testimonia lo sfumare del dilemma in tragedia, posto che alla scrittura, come alla vita, una armonizzazione tra forma e contenuto non possa imporsi –, si scoprirebbe però, all’origine della falsità, la finzione. E, infine, se il risvolto esterno della poiesis, della creazione, coincide necessariamente con la finzione, va da sé che la falsità della scrittura è prigione da cui non si evade, e che anzi costituisce sì un limite all’espansione dello spirito poetico, ma come un’entità che nel contempo preserva ed incarcera.
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Un estratto dal libro di Antonio Prete, “A l’ombre de l’autre langue. Pour un art de la traduction”

 

 
Il sogno e il delirio (sua variante vigile, dunque perversa) costituiscono, per così dire, i fuochi attorno cui la ricerca linguistica di Landolfi ruota senza sosta, a quella stessa distanza costante e tremenda con cui la navicella di Cancroregina ruota attorno alla Terra: il sogno leopardiano di poetica purezza primigenia, che si tenta consci della sua impossibile realizzazione; il delirio insito nella volontaria, anzi programmatica evasione del senso, il quale è denuncia di un sogno svanito nelle tenebre chiare della veglia. Al di là dello scoglio apparentemente insormontabile del significato mancato, dell’insensato prodotto da sogni e deliri, il Landolfi del Dialogo dei massimi sistemi, a mezzo fra il divertissement contagioso à la Carroll e l’universalismo di Finnegans Wake, fa scorgere al lettore uno spazio incontaminato di essenze: l’apparentemente intraducibile, allora, diventa il già tradotto, forma in sé sostanziale dacché esprime una creatività svincolata dalla logica consuetudinaria.
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Il “Landolfo”, Landolfi, i Landolfi.

 di DANIELE VISENTINI
 

 

È probabilmente noto ai lettori di Tommaso Landolfi, e indubbiamente è assai noto ai suoi interpreti e critici, il giudizio espresso dall’autore in una rara intervista televisiva circa il suo Landolfo VI di Benevento. Incalzando egli stesso l’intervistatore a chiedergli quale fosse il libro prediletto tra i suoi, e perciò programmando questo speciale verdetto con qualche anticipo, Landolfi asserisce senza tentennamenti che «Il Landolfo […] è senz’altro il suo migliore libro e, per conseguenza, è il meno apprezzato»(1).
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“I duellanti” – Un contributo critico

di LUCA LENZINI
 

 
Sull’attendibilità di Bilenchi come biografo di Landolfi la figlia dello scrittore, Idolina, nutriva più di qualche dubbio, complice fra l’altro quella disposizione all’aneddoto e alla storia colorita che chi ha conosciuto lo scrittore di Colle val d’Elsa (e forse anche chi, semplicemente, è nato o è vissuto qualche tempo nella provincia senese) riconosceva e riconosce come fonte d’ispirazione per le sue prose impeccabili degli ultimi anni. Tuttavia, qui Luca Lenzini può esibire i documenti e incrociare le testimonianze di coloro che, volenti o nolenti, hanno partecipato all’improbabile disfida fra Luzi e Delfini; sicché l’espressione landolfiana passata in proverbio, così carica di umori teatrali “da operetta”, andrà presa per buona e messa in conto, sul piano linguistico, al singolare impasto della lingua (anche parlata) di Landolfi, mentre sul piano personale si potrà ricordare quella vena di beffardo sadismo che lo rendeva temibile agli amici e sodali delle Giubbe rosse. A proposito di Delfini, si ricordi almeno il malevolo articolo sul Ricordo della basca uscito sulla rivista «Circoli», a. VIII, n. 11, novembre 1939; mentre dal lato opposto si veda il racconto di DELFINI, Lo scrittore, in ID., La Rosina perduta, Firenze, Vallecchi, 1957 e poi in ID., Manifesto per un partito conservatore e comunista e altri scritti, a cura di C. GARBOLI, Milano, Garzanti, 1997.
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Landolfi inventore di lingue

di PAOLO ALBANI

 
 

1.   Non fa meraviglia che uno scrittore come Tommaso Landolfi si sia cimentato nell’invenzione di lingue considerando che ha allestito il suo personalissimo stile ponendo grande attenzione al linguaggio, preso tra il mascheramento di una lingua alta ottocentesca del tutto letteraria e un tono discorsivo basso che rimanda al parlato (apparente dicotomia messa in luce da Gianfranco Contini che definì Landolfi un «ottocentista eccentrico in ritardo»), con un uso originale e suggestivo di letterarismi, arcaismi, toscanismi, neoformazioni e particolari allomorfi(1).
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