“Tommasino” di Romano Bilenchi

Pubblichiamo qui il testo “Tommasino” di Romano Bilenchi, un ricordo Tommaso Landolfi uscito in R. Bilenchi, Le parole della memoria. Interviste 1951-1989, Fiesole, Cadmo 1995 e ringraziamo l’erede Laura Mori e l’editore Cadmo per la gentile concessione. Il testo è introdotto da un breve saggio del poeta e critico letterario Paolo Maccari.

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Il testo che segue è apparso in volume nel 1996, all’interno di Le parole della memoria (Fiesole, Cadmo, pp. 204-207) dove Luca Baranelli aveva riunito una scelta delle interviste concesse da Bilenchi nell’arco di quarant’anni. Nell’introduzione, Romano Luperini notava giustamente che Tommasino “starebbe benissimo in Amici” (p. 9), il libro di ritratti narrativi che Bilenchi aveva stampato una prima volta nel 1976 senza poi smettere di integrarlo con nuovi pezzi fino alla morte. Nel suo singolare statuto spurio, tra intervista e racconto a quattro mani, il ricordo di Landolfi compone qualcosa come un apocrifo di Amici.

Le cose erano andate così: in occasione del decennale della morte di Landolfi, nel 1989, Bilenchi concede un’intervista a Giorgio Dell’Arti. Invece di montarla secondo l’usuale cadenza di domande e risposte, il giornalista salda le parole di Bilenchi nella continuità di una rievocazione ininterrotta, che sottopone poi all’intervistato. Ricevutone l’assenso, il pezzo appare il 9 giugno del 1989 su «Il Venerdì di Repubblica».

Come molte altre pagine bilenchiane, anche queste su Landolfi certificano la capacità dello scrittore di Colle Val d’Elsa di comprendere e stimare, in ambito letterario, il diverso da sé, aiutato da quell’alta considerazione della poesia intesa quale nozione intrinseca all’eccellenza di ogni risultato artistico – che lo affratella ad altre grandi personalità della Firenze entre deux guerres, tra cui lo stesso Landolfi: si ricordi che il netto posizionamento ideologico non fu d’ostacolo, a Bilenchi, nel riconoscere le qualità del Dottor Zivago o del Gattopardo, mentre altri politicamente a lui consentanei ebbero moti di ripulsa politica. E in questo ambito la sua libertà di giudizio è ben illustrata dal catalogo della collana di narratori diretta a cavallo degli anni sessanta insieme a Mario Luzi per Lerici. Basti dire che il primo titolo coincide con l’esordio ufficiale di Antonio Pizzuto.

Questa attitudine equanime corrisponde, al di là delle stagioni dei suoi diversi impegni politici, a una duplice sensibilità, se non addirittura a un doppio indice di reazione ai fatti culturali: lo testimonia autorevolmente Montale in un articolo che festeggia l’uscita dei Racconti bilenchiani del 1958:

Uomo di parte ‘selvaggia’ […] Romano Bilenchi parve subito, a chi lo conobbe, uno strano impasto di contrastanti qualità; come se in lui la nascita e l’istinto del sangue, che lo indirizzavano verso il fauvisme artistico e politico allora in auge in certi ambienti regionali, fossero corretti e persino contraddetti da una natura più lucida, e diciamo pure più aristocratica.

[in Il secondo mestiere, Tomo secondo, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1996, p. 2180-81].

Non stupisce che Montale apprezzasse soprattutto la “natura più lucida” fino a designarla, con distinzione verticale, “aristocratica”. In verità sarebbe preferibile probabilmente mantenere l’oscillazione su un piano di compresenza orizzontale, in cui le due attitudini comunichino e si nutrano a vicenda. In ogni caso, per quanto riguarda Tommasino, il contatto tra i due scrittori ci permette, dietro la sintesi di un’ammirazione assoluta da parte di Bilenchi, di riflettere su due aspetti diversi di questa relazione, uno interno e uno esterno alla narrazione.

Il primo riguarda il posto di Landolfi sia tra gli affetti di Bilenchi sia nel suo canone implicito degli scrittori del Novecento. Il secondo invece corrisponde a un confronto tra due personalità opposte quante altre mai.

Per Bilenchi, Landolfi rappresenta soprattutto un’epoca, ossia gli anni trenta fiorentini (gran parte dei suoi ricordi convergono in quel periodo). Per il Bilenchi cronista alla maniera dei primitivi, Landolfi è anche il personaggio, il fulcro di una gustosa aneddotica, e ovviamente lo è segnatamente nella sua fase più estroflessa e sociale, che si interrompe grossomodo con lo scoppio della guerra: la scena nel negozio di abbigliamento, l’episodio a suo modo celebre del duello mancato tra Delfini e Luzi, le favolose vincite al casinò, i dileggi teatrali alle “Giubbe rosse”… Fatti che più o meno rientrano nella caratterizzazione del personaggio Landolfi riportata da molti testimoni. Dovrà aver fatto velo, invece, l’amicizia, quando Bilenchi ricorda inverosimilmente che Landolfi non volesse essere pagato per le sue traduzioni apparse sul “Nuovo Corriere”, quando sappiamo che le collaborazioni giornalistiche erano da lui tollerate soltanto per gli introiti che garantivano. Ma al di là della curiosità divertita e in qualche misura mitografica con cui si narrano le stravaganze landolfiane, affiora nella testimonianza di Bilenchi una corrente di calore che coincide con un indubbio affetto: lo denuncia già il diminutivo che intitola il pezzo, e lo ribadisce il tono della rievocazione, sobrio come quasi sempre vuole lo stile bilenchiano, e insieme commosso. Un esempio di grande mimesi, da parte di Dell’Arti (o è intervenuto lo stesso Bilenchi?), è rappresentato dal finale improvviso di Tommasino, che è abituale nei migliori racconti dell’autore di Anna e Bruno e degli Anni impossibili, e in cui, in quest’occasione, traspaiono appunto sobrietà e commozione; o per meglio dire, un’interdizione al pathos che ottiene l’effetto contrario.

Possiamo avvalorare questo fervore di fedele amicizia con un’altra citazione: in un’intervista uscita pochi giorni prima della morte, il 9 novembre 1989, alla domanda di Giuliano Gramigna: “A quali scrittori italiani lei è stato, ed è, più legato anche affettivamente?”, Bilenchi risponde: “Tommaso Landolfi, prima di tutti, grande scrittore ma anche grande attore” (Le parole della memoria, p. 230). E a corroborare la dichiarazione di stima per la qualità dell’opera landolfiana, ecco un’ultima citazione da un’intervista dell’’81, ora raccolta, al pari della prima, nel volume già ricordato Le parole della memoria. Qui Bilenchi sfiora l’iperbole quando, essendogli stato chiesto da Gloria Piccioni un giudizio sulla contemporaneità artistica, letteraria e sociale, afferma che “Basta pensare a Gadda e a Landolfi per trovare due tra i maggiori scrittori mai esistiti” (ivi, p. 96).

Della disponibilità di Bilenchi ad apprezzare narratori diversissimi da lui si è detto; si può aggiungere che certi comuni amori, come quello per gli scrittori russi, possono aver stabilito una comunanza di gusto; ma a rendere ragione del trasporto di Bilenchi per l’opera di Landolfi, oltre alla statura obiettivamente grande di quest’opera, può essere utile istituire in rapidi schizzi un parallelo, o gioco di antitesi, tra i due autori. È quello che tenterò nelle righe seguenti.

Landolfi e Bilenchi hanno una carriera speculare: esordiscono presto, ma entrambi diventano qualcuno sul finire degli anni trenta. Per un motivo o per un altro, sono personaggi. Bilenchi per il suo silenzio per niente enfatizzato, Landolfi per le doti attoriali e la sua allergia agli incontri ufficiali. In un certo senso, da un certo punto in avanti, Bilenchi è una presenza importante senza scrivere niente, Landolfi è un’assenza che scrive regolarmente.

Bilenchi scrivendo Amici sanziona la straordinaria energia umana dei suoi rapporti letterari. Di Landolfi maturo si conoscono alcune idiosincrasie e i bersagli dei suoi dileggi ma, dopo la giovinezza, non si conoscono amici letterari che abbiano dato vita con lui a un vero sodalizio. Aveva ammiratori prestigiosi, un pubblico esiguo ma raffinato, eppure l’impressione è che, letterariamente (sul piano umano, chi può dirlo…), la sua solitudine fosse tremenda. E sotto questo aspetto il grandissimo attore che proprio gli amici omaggiano di lontano (perché ad avvicinarsi erano dissuasi) non recitava.

Continuiamo con qualche altra notazione contrastiva: il narratore Bilenchi sarà additato come un campione dell’anti-retorica, addirittura, quando il termine diventerà di moda, un anticipatore del minimalismo; Landolfi è uno signore della retorica e della contraffazione. Bilenchi scrive, e corregge quel che ha scritto, scolorendo più possibile la sua lingua, Landolfi adotta una lingua anticata sollecitatissima. Il narratore toscano, che dalla Toscana non si è mai allontanato, procede a una detoscanizzazione del suo dettato, mentre l’apolide italiano si diverte a toscaneggiare. Tutto dentro la realtà, nelle sue evenienze più minute, nelle sue sfumature di grigio, intento a reperire tra le fessure del quotidiano i grandi temi della crescita e dell’impossibilità di una piena comunione umana, Bilenchi; Landolfi attratto da ogni possibilità fantastica che la realtà o l’irrealtà gli ispirano: e se invece incentra un suo racconto su fatti reali, ecco allora che quegli stessi fatti devono giungere a un punto di rottura secondo un’istanza estremistica di collaudo morale che li renda più veri che verosimili. Un investimento di moralità che in Landolfi si traduce in una petizione sconfinata, alta fino all’irrespirabilità e renitente a trovare attuazione pratica. Ed ecco il disimpegno supremo di Landolfi, che non ha d’altronde mai smesso di recitare da nobile nauseato dalla fiumana democratica: una recita particolarmente convincente, anche, probabilmente, per lui. A contrasto, l’impegno di Bilenchi, che nasce con la sua adolescenza di fascista di sinistra, prosegue con l’adesione al partito comunista, non si interrompe nemmeno con la chiusura del Nuovo corriere. Accanita necessità di credere in un’idea di progresso storico, contro accanita incapacità di credere in una prospettiva di organizzazione sociale benigna.

Ma arrivati al nesso impegno-disimpegno, nel momento in cui sembra che la polarizzazione tra i due offra la massima dilatazione, si intravede un fondo comune, e cioè la coscienza simmetrica che la letteratura non basta: si tratta di una dimensione suprema nella vita di un uomo, eppure non basta. Fedeli alla nozione, a cui mi sono riferito già all’inizio, di poesia come mezzo conoscitivo assoluto (e l’estrema stagione landolfiana sarà consacrata quasi interamente alla lirica con un abbandono, una trepidazione da adepto riottoso finalmente persuaso, che ne fanno una delle parti più notevoli della sua opera), Bilenchi e Landolfi oscillano nel riconoscere e negare alla letteratura la facoltà di assegnare un significato alla propria esistenza. Bilenchi oppone alla letteratura una via parallela, che è quella della storia, della dialettica materialistica, della lotta per la giustizia sociale. Landolfi lascia che l’insufficienza della letteratura dilaghi in un’insufficienza metafisica, con cui poi risigilla l’opera che viene compiendo.

Un amore per la scrittura così contrastato, problematico, insofferente eppure insopprimibile, si rivela in entrambi un elemento di nobile perplessità – nobile stavolta nel senso più alto – che può aver concorso, senza che ci fosse bisogno di dichiararlo esplicitamente, ad alimentare la stima e l’affetto che Romano continuava a nutrire per Tommasino anche a dieci anni di distanza dalla sua morte, e poco prima di morire.

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Tommasino non amava farsi fotografare e, una volta che si stava al caffè e un fotografo gli venne vicino, alzò la mano e si vide poi che sull’istantanea non era venuto che il ritratto del palmo. Ma in vecchiaia questa antipatia per la foto gli passò un poco e infatti qualche immagine sua c’è. Invece non si opponeva se uno lo voleva dipingere o disegnare e Rosai tante volte gli fece uno schizzo, così, al volo, su fogli di carta o a matita sul marmo del tavolino del caffè.

Io lo conobbi nel ’32. Arrivai un pomeriggio al caffè «San Marco»e c’erano Renato Poggioli, Landolfi e luigi Berti. Io stavo con Ungaretti, Berto Ricci, Bonsanti. Poggioli s’alzò per salutare Ricci e mi presento Landolfi. Landolfi aveva un cappottino azzurro, un po’ leggero per la stagione, che era ottobre o forse novembre. Dopo le presentazioni si risedette e ricominciò a parlare di quello di cui stava parlando prima, cioè della poetessa Anna Achmatova. Io vidi che era bello e che assomigliava a Gogol’.

Più tardi le traduzioni di Tommasino dal russo sarebbero diventate celebri, ma io non so se, a parlarla, lui questa lingua la parlasse così bene. A Firenze viveva una vecchia profuga russa, che aveva insegnato il russo a tutti quelli che a Firenze lo spaveano (una signora stravagante, per quei tempi, che la domenica andava allo stadio a vedere le partite di calcio), la quale mi raccontò che aveva invitato Landolfi e Poggioli a un rito ortodosso e, rivolgendosi tutti quanti a Tommasino in russo, risultò che lui non sapeva rispondere, in quella lingua, nemmeno «buonasera». Ma questo non deve meravigliare perché Landolfi, se pure non sapeva il russo parlato, conosceva però – per puro amor di lingua – tutte le grammatiche del mondo, anche quella turca, e se gli capitava qualche giovane che diceva di studiare questa o quella lingua subito gli faceva domande: «Perché in quel caso si dice così? E perché il quell’altro colà?». I giovani, terrorizzati, scappavano.

Quando gli pigliavano i cinque minuti di mattana erano dolori. In piazza della Repubblica aprirono un negozio di abbigliamento con l’insegna «La Moda d’Italia». Questo negozio aveva due vetrine parallele nelle quali gli arredatori avevano messo, per il momento, dei manichini di donne nude. Arrivo e vedo che intorno al negozio si sono radunate due-trecento persone. Guardano le donne nude? Neanche per sogno: guardano Tommasino che esce da una vetrina ed entra nell’altra, poi esce da questa e rientra nella prima, tutto affannato, tutto trafelato e grida: «Quanto sono belle! Bellissime! Quanto sono belle!». Mi ci volle un’ora per calmarlo e portarlo via di lì.

Un anno dopo quel primo incontro al caffè «San Maeco», lo rivedo alle «Giubbe Rosse», cominciamo a frequentarci. Lui pigliava in giro: «Che belle mani avete, Maestro». Questa frase era la sua preferita. Una volta, eravamo seduti con Gadda, e Landolfi comincia a fare: «Vedi Bilenchi com’è elegante, raffinato…», un’altra versione «Che belle mani avete, Maestro». Poi, siccome le idee mie e di altri erano note – venivamo chiamati «bloscevichi» – attaccò a dire: «Signor Gadda, lui, Pratolini, Alfonso Gatto, Vittorini, quando avranno vinto, vi manderanno in Calabria a scrivere romanzi sui braccianti calabresi». Io dentro di me pensavo: «Sta’ a vedere che Gadda ci crede davvero». E infatti Gadda aveva una faccia preoccupata.

Tommasino girava con gente più giovane di lui, la notte giocava. Una notte, io ero appena arrivato al caffè dal giornale, si presenta: «Romano, vieni con me, si va al Casino Borghese a giocare». «Ma io non ho soldi». «Non importa, te mi porti fortuna» (Landolfi, infatti, quando giocava perdeva sempre).

Andammo e io mi sedetti vicino a lui e lo guardai giocare e alla fine della notte aveva vinto più di undici milioni, undici milioni del 1940, una somma enorma (per avere un’idea dell’enormità di quella somma posso dire questo, che Traverso comprò allora un villino dalle parti di via Cavalcanti, sempre qui in Firenze, e lo pagò centomila lire).

Usciti dal casino Borghese, io dissi: «Dammene mezzi di questi undici milioni, che ti compro cinque o sei quartieri, almeno li perdi uno alla volta». Lui rispose: «No». Si comprò invece due cappelli, due vestiti e una motocicletta e con questa motocicletta portava su e giù gli amici tra Firenze e Fiesole.

Poi aveva una donna e la portò a Sanremo e in quattro ore perse tutto quello che gli restava degli undici milioni, ma tutto tutto. Rimasto senza niente, si mise a sedere su una panchina davanti al casinò. Dopo un po’ passò un rappresentate di medicinali (per via del gioco conosceva persone di ogni ambiente) e questo rappresentante di medicinali gli dette le ottanta lire che gli servivano per tornare a Firenze. Ottanta lire! E quattro ore prima aveva posseduto undici milioni!

Il gioco – non dico nulla di nuovo – era la sua ossessione. Quando giocava era invasato. Girava con le carte in tasca. Si portò un usciere dell’università a giocare in biblioteca e quello, purtroppo, fu scoperto e perse il posto. Alla fine dell’anno scolastico arrivava il padre che se lo metteva in carrozza e insieme facevano il giro di tutti i creditori, per soddisfare i debiti di gioco che Tommasino aveva fatto durante l’anno. Come mai il padre non gli diceva niente? Io non so rispondere, ma posso raccontare una voce che correva. Secondo questa voce anche il padre era stato giocatore e siccome Tommaso aveva perso la mamma a un anno e mezzo, quando andava a giocare, il padre se lo portava dietro. Può essere vero, può essere falso, certo è che il padre pagava e non diceva niente.

Invece Landolfi non poteva soffrire i premi letterari e per convincerlo a partecipare allo «Strega» – che poi vinse – dovettero dargli un milione. Però non ci fu verso di persuaderlo ad andarlo a ritirare. «Ma perché, Tommasino, non ci vuoi andare?». «Perché non voglio dare la schiena al pubblico».

Pampaloni andò a trovarlo nella villetta che aveva a Pico, vicino Frosinone, ma Landolfi non si faceva vedere. Uscirono i familiari e dissero che Tommasino non si poteva disturbare, non voleva essere disturbato. Pampaloni disse: «Io aspetto». Lo fecero accomodare in giardino. Passa un’ora, ne passano due, passa l’intero pomeriggio e finalmente, alle sette di sera, Landolfi esce: ha un mantello nero e un cappello calato sugli occhi. Attraversa il giardino senza degnare Pampaloni di uno sguardo e s’inoltra, silenzioso, nel bosco.

Scherzi così ne ha fatti a decine. Non però a me. A me voleva bene. Passeggiavamo ore e ore e parlavamo di letteratura, di quale struttura avessero i romanzi o i racconti. Sempre però così, in astratto, mai davanti a un libro concreto. Quando scrissi Conservatorio di Santa Teresa avevo qualche dubbio sul finale. La zia di Sergio, la zia del bambino protagonista, si innamora di un uomo sposato, Edoardo, che alla fine deve sparire. Landolfi era d’accordo su questo: il personaggio di Edoardo alla fine doveva sparire. Ma sparire come? Io da bambino, una notte, uscendo da un posto dove si beveva, avevo visto uno ammazzato a coltellate. A casa mia avevano detto subito che erano stati i fascisti. Pure, il morto era un operaio e anche il suo assassino era un operaio. Come si spiegava? A casa mia non s’era parlato d’altro per giorni e giorni e, per questo, quel delitto, quel fattaccio m’era rimasto impresso nell’anima in modo incancellabile. Così in Conservatorio, per far sparire Edoardo, adoperai quell’episodio della mia infanzia e lo feci ammazzare all’uscita di una bettola. Avevo però dubbi su questo finale: non sarebbe stato più naturale farlo presentare un giorno alla zia, fargli dire – così come accade nella vita di tutti i giorni – «Guarda che ho mogli e figli, bisogna finirla»? Con Landolfi si esaminava la cosa da ogni lato, i preti diranno che il libro è ambiguo, i critici tireranno fuori Freud che non c’entra nulla, i fascisti mi romperanno i corbelli. Alla fine decisi per il finale per il quale ero già orientato fin dall’inizio e Tommasino fu d’accordo.

In politico Tommasino non era niente, ma antifascista lo era di sicuro. Quel «voi» che adoperava («che belle mani che avete, Maestro») non aveva niente a che fare con «voi» fascista, era un «voi» per pigliare in giro. Le pagine di Tommasino emanano un terribile senso di morte, ma oso dire che nella vita Landolfi era gaio. Pur di sfottere Bigongiari, imparò a memoria tutte le sue poesie.

Quando uscì Conservatorio, io ero ansioso di sentire il suo parere e il suo parere fu questo: «Il libro va bene, trecento pagine e non c’è neanche un errore di grammatica…». Lui diceva che questa capacità di scrivere trecento pagine senza errori di grammatica era dovuta al mio essere toscano. Venne a casa mia e vide che avevo un Dizionario delle congiunzioni (benché possa sembrare impossibile che in italiano vi siano tante congiunziomi da formare un dizionario, garantisco che io possedevo quest’opera, due volumi scritti fitti, con copertina rosa, pubblicati da Le Monnier). Subito disse: «O me lo dai o non me ne vado di qui». Io resistevo, cercavo di persuaderlo. Allora disse: «Tu sei toscano, non sbagli mai una congiunzione. A me questa fortuna non è capitata, io le congiunzioni le sbaglio. Dammelo, dammelo se no non vo via». Effettivamente non se ne andava, bisognò dargli il dizionario.

Oreste Macrì mi scrisse una recensione dei Racconti fatta alla maniera dei critici, tutta piena di «ma» e «se». Quando venne al caffè, Landolfi attaccò subito: «Che belle mani avete, Maestro»; e subito dopo: «mettetevi qui, Maestro»; e poi ancora, rivolto a me: «Oreste sembra dubbioso»; e quindi di nuovo, a Macrì: «Ma come mai, Maestro, a proposito di voi, sembrate dubbioso, eppure il libro va senz’altro bene perché dura 200 pagine e per 200 pagine non ci sono errori di grammatica»; alla fine Macrì, che è piccolo, tutto nervoso, si imbestiò per davvero.

Un altro che Landolfi non poteva soffrire era Delfini. Vi fu un incidente assolutamente insignificante e Delfini sfidò a duello Luzi. Luzi scelse come padrini me e Parronchi, Delfini si prese Timpanaro senior. Noi cercavamo di persuadere i due a non battersi, la questione su cui s’erano presi era ridicola. Allora Landolfi, una mattina alle sette, venne a casa mia: lui aveva appena finito di giocare, io m’ero messo a letto per dormire dopo una notte passata al giornael. Andai ad aprire con gli occhi gonfi per il sonno: «Che vuoi?». «Vieni giù al caffè». «ma che caffè, Tommasino, sono le sette, voglio dormire…». «Tu non vuoi far battere a duello Delfini…». Io dissi: «Non mi rompere i corbelli» e stavo per chiudere la porta, ma Landolfi mise il piede in mezzo e attraverso lo spiraglio ch’era rimasto aperto disse questa frase, così tipicamente landolfiana: «Il suolo di Firenze deve essere insanguinato da quel porco romagnolo…».

Sì, D’Annunzio gli piaceva, specialmente il D’Annunzio delle poesie. Con Montale invece non andava bene. Montale attraversava un periodo molto difficile e Tommasino, col suo fare beffardo, lo buttava ancora più giù. Nemmeno a Montale fu risparmiato il «che belle mani avete, Maestro». Montale riprendeva fiato solo frequentando certi stranieri amici suoi e in particolare una ragazza tedesca, profuga antinazista, alla quale cantava per telefono Mozart.

Dopo la guerra, quando dirigevo «Il Nuovo Corriere», venne a chiedermi se gli pubblicavo qualcosa. Io gli dissi: «A te, qualsiasi cosa». Mi diede quattro o cinque racconti tradotti, tra cui uno di Merimée. Non voleva essere pagato. Naturalmente lo compensai, col massimo consentito dalle magre casse del giornale. In quell’epoca Landolfi aveva sempre bisogno di soldi. I racconti li pubblicai a puntate, a mo’ di feuilleton.

L’ultima volta venne a Firenze e mi telefonò. Stava dalla Pincherle, la sorella di Moravia: «Tommasino! Vengo a trovarti». «No, no» disse «non venire. Sono brutto e da te non mi voglio far vedere». Parlammo ancora un po’ e alla fine disse: «Stasera vo a cena fuori». E siccome stavo zitto aggiunse: «Cancro permettendo».