Da “Gli anelli di Saturno”

Da “Gli anelli di Saturno”, di Alessandro Gaudio

 

 
Gli scritti pubblicati di seguito sono estratti dall’agenda di filosofia della letteratura redatta settimanalmente da Alessandro Gaudio per l’«Eco dei monti» (storica testata fondata a Nicosia, in Sicilia, nel 1905), che ha per titolo Gli anelli di Saturno. Il progetto complessivo, come scrive l’autore, «prevede di ricostruire un percorso all’interno della cultura del Novecento che, attraverso sintetici riferimenti alla letteratura, alla filosofia, alla psicanalisi, alla storia dell’arte e alla fotografia, discuta alcune delle questioni essenziali sulle quali si è interrogata la civiltà capitalistica durante il secolo scorso. Le problematiche sottolineate da Landolfi si uniscono a quelle sollevate da Musil, Trakl, Wittgenstein, Bernhard, Sebald, Volponi, Morselli e altri, formando un sistema di rimandi che, spesso dialetticamente, consente di considerare, da punti di vista inediti, la complessità della cultura moderna».

 

 

La rete di remote prospettive

 

Scrittore da grotte, favolatore di astri, di
macerie di cunicoli, zoologo di animali
mostruosi, cosmici, pianeti animali,
botanico di veleni rari, nobili […]
(G.
Manganelli, Prosa lucida, «Corriere della
Sera», 2 marzo 1975, ora in Scuole segrete.
Il Novecento italiano e Tommaso Landolfi,
a cura di A. Cortellessa, Milano,
Aragno, 2009, p. 103).

 

 

Già Pietro Citati aveva parlato di Viola di morte − raccolta di poesie, inospitali quanto quelle Trakl, a cui Tommaso Landolfi lavorò alla fine degli anni Sessanta − in termini di «diario in versi» (la recensione di Citati è del 1972, anno della prima uscita dell’opera per Vallecchi); è utile adesso riprendere quella definizione e precisarne il senso nella direzione che di quel diario (in continuità con la stagione landolfiana appena conclusasi, vale a dire quella dei diari veri e propri) chiarisca meglio la portata universale, talvolta sovrumana o, persino, trascendentale. è, allora, «[…] oltre i confini azzurri e curvi / Di questa patria nostra […]» (p. 50; l’edizione di Viola di morte alla quale faccio riferimento è quella allestita da Adelphi nel 2011) che è necessario cercare quell’estensione; in altre parole, il compimento smisurato della dimensione personale del poeta. Tale compimento non è altro che la proiezione su scala siderale di un’anima che tenta di sottrarsi a un’esistenza troppo faticosa e tetra; è, dunque, tragica e amara simulazione (più che dissimulazione semplicemente ironica o puro automatismo psichico o stilistico) di un «Universo increato» (ad esso si appella il poeta nell’explicit della lirica intitolata Talora simuliamo l’universo, p. 54).

All’oscura disperazione del mio vivere quotidiano Landolfi aggiunge un mondo aperto e sconosciuto nel quale si versa, giorno per giorno, la caligine dei miei sogni (p. 79); quello stesso che, qualche anno dopo, sarà il «Ricettacolo dei sogni» rappresentato dal palazzo di famiglia a Pico, in provincia di Frosinone. Si tratta di uno spazio «vuoto d’uomo» (p. 86) ed eterno sul quale proiettare il mio segno, sul quale misurare il cielo, illudersi di sempre e persuadersi del mai. è la rete di remote prospettive di cui il poeta parla nella lirica omonima: di quella rete risulta ormai perduta la trama di rapporti che la legava alle «luci vive» (p. 103) della mia realtà quotidiana:

 

[…]

L’aquila tende il collo, la corona
Sfavilla, lo scorpione abbranca
La prossima bilancia,
Dardeggia il sagittario,
Mesce l’acquario,
Il carro di Boote viene a colmo
(Arturo ne rapisce Garibaldi) −
E tutto invano.
[…]

(ibidem)

 

La rete delle costellazioni, degli oroscopi e delle sorti si è disfatta condannandomi a «questa infera marcita» (ibidem), popolata da miriadi di alati insettucci «di crepuscolo», «Animosa foresta, irta, intricata, / Arricciolata» (pp. 110 e 111), oltre la quale non è possibile scorgere nulla, neanche servendosi dell’ardita lente della fantasia o, ma è la medesima cosa, della poesia («[…] la sola / Libertà che è concessa al figlio d’uomo […]», p. 188) o ancora dell’amore («Tu arginavi la morte, amore: adesso / Essa a guisa di piena mi sommerge», p. 210), forse.

La vita, angoscia suprema tanto quanto la morte, si nutre di queste tenebre, negli anfratti di un universo-tana (o, chissà, covo) rifattosi muto, in cui «Eternamente culmina la Lira, / Eternamente declina Boote, / Eternamente l’Orsa ruota / Dai lavacri del mar sempre divisa. […]» (p. 121). Insomma, l’uomo di Landolfi [scrittore che, è bene ricordarlo, nel 1959 tradusse, sempre per Vallecchi, Le nozze di Sobaide (Die Hochzeit der Sobaide) e Il cavaliere della rosa (Der Rosenkavalier), freddolose opere del grande letterato viennese Hugo von Hofmannsthal] nasce già morto − «Io sono morto e seguito a morire / Perché son vivo» (p. 230) − e la sua esistenza si consuma in maligni cieli, in un tempo sconoscente e macilento, trascorso tentando di differire una morte per la quale nessuno potrà consolarlo.

Morire non costituisce né un premio, né un privilegio, né consente di «Sentirsi parte d’un disegno arcano» (p. 137). Vivere, d’altro canto, non è altro che contorcersi come una «vipera mozza» (p. 144), con la consapevolezza che ogni cosa non serva certo «a non morire» (p. 151). La vita, pertanto, è «[…] cammino da nulla a nulla» (p. 157), è un lungo, eterno, bando dalla terra, durante il quale, nei «lunghi giorni vuoti» (p. 181), vaghi senza meta e, dopo aver perso bussola e faro, accumuli errori su errori, preda di un eterno tralignamento e vittima dei capricci dell’ultima dea, l’incertezza. In questo scenario, quella del poeta, cantore dell’impossibilità e dell’aleatorio, si rivela essere, in fin dei conti, una disposizione morganatica e solitaria, capace, dopo aver vissuto il passaggio delle costellazioni, di spendere comunque una parola di speranza, ma vana e lusinghiera, «[…] sotto il grande arco delle stelle» (p. 237).

6 maggio 2014

 

 

 

 

Pieno e vuoto. Ancora sulla poesia di Landolfi

 

 

[…] la letteratura comincia dove finisce
la letteratura?
(T. Landolfi, Cancroregina [1950], in Id.,
Opere (1937-1959), a cura di I. Landolfi,
Milano, Rizzoli, 1991, p. 555)

 

 

Un timbro basso continuo unifica, cioè riconduce all’uno e livella […] le narrazioni di Musil, di Bernhard e di Sebald, così come le poesie di Trakl e quelle di Tommaso Landolfi. Si tratta, però, in tutti i casi di apparati (o di forme, si dovrebbe dire) che, pur segnalando quanto il vuoto sia incombente, certificano una misura piena, fissa, ricorrente, alla base della quale c’è un’energia oscura che si pone come costante cosmologica. Lo si vede bene, ad esempio, nel Vuoto che Natal’ja Sergeevna Gončarova dipinse nel 1913 […] e nella poesia che segue, tratta ancora da Viola di morte:

 

Sei partita, Maledetta,
Ti sei sottratta al mio odio
Ed anche al mio amore,
A quello che accompagna
La tua rauca voce −
Sebbene tu sia nulla ed io sia tutto.

Ma il tuo nulla raggia:
Il mio tutto è opaco
E solo dal tuo nulla accoglie luce.

(Viola di morte, cit., p. 196)

 

Tale concreta evidenza si accompagna, nondimeno, al timore che quel nulla, in fondo, non esista. A sottolinearlo, nel caso di Landolfi, era stato Calvino (un altro degli autori in cui ci si è imbattuti nel corso di questo lavoro) che bene aveva spiegato come, per Landolfi, l’ossessione per la «patologia del vivente» fosse collegata alla speranza che il nulla esiste (L’esattezza e il caso è lo scritto che Calvino dedica allo scrittore laziale nel 1982). è, con ogni probabilità, una speranza vana e, tuttavia, è proprio essa che la mia immaginazione (o, ma è la medesima cosa, quella del poeta) finisce per muovere.

Tutto e nulla, pieno e vuoto, vita e morte, paura e speranza: tali complesse antinomie, dialetticamente giustapposte e messe in questione, danno vita a un grado di scrittura che, pur prediligendo un tono depresso, trova con sistematicità uno sbocco originale, mai imparaticcio o, sul versante opposto, ostentatamente sublime. In questa continuità formale e di senso, nella quale anche il vuoto risulta essere polarizzato, risiede tanto la disperazione e il dramma insiti nella propria condizione di uomo, quanto la profondità e l’ossessione dei processi immaginativi. Come si è già visto, questo spazio del sogno e dell’immaginazione include il mondo reale e quotidiano, ma si guarda bene dal limitarsi a tale semplice materialità: nella sterile rispondenza al contemporaneo − ha notato più di uno studioso − perderebbe la sua disposizione alla poesia [lo ha detto limpidamente Giacomo Trinci in un intervento del 2001 adesso raccolto in A. Cortellessa (a cura di), Scuole segrete, cit., pp. 309-312]. Infatti, quello spazio prevede anche il mondo siderale e fantastico − forse quello che lo stesso Landolfi, in un racconto del 1939, definisce «sideronebulare» −, nel quale ricorrono astri e costellazioni:

 

L’enorme mano che vegliava il mare
Sulla mia fronte s’è abbattuta.
O madre sconosciuta,
Insegnami il pregare.
Il pregare per gli astri e per gli armenti,
Finché non siano spenti
Tutti i moti del cielo e della terra,
Fino a che non rientri
Nel nulla, e posi, tutto ciò che aberra.

(Viola di morte cit, p. 236)

 

Ed è a quell’agglomerato − patria celeste costituita da caso, nulla e morte − che Landolfi, come il più nel meno, fa costantemente riferimento. Sembrerebbe proprio ciò che Carlo Bo ha definito come il secondo piano che ogni sua pagina esige (La scommessa di Landolfi è la prefazione di Bo al primo volume delle opere dello scrittore, edito da Rizzoli nel 1991 e curato da Idolina Landolfi). è all’altezza delle idee astronomiche che si trova questo secondo piano di cui devono beneficiare le fantasie dei poeti, così come le concezioni dei dotti e − conclude Landolfi nel racconto già citato e intitolato Da: «L’astronomia esposta al popolo». Nozioni d’astronomia sideronebulare − le speculazioni dei filosofi. In quello stesso scritto il giovane Landolfi chiariva come l’etere cosmico, che erroneamente si riteneva fosse vuoto, sia fornito, in realtà, di una sua densità, là maggiore qua minore, che è, in ogni caso, riscontrabile dappertutto. E se il nulla, dopo tutto, non esistesse affatto?

13 maggio 2014

 

 

 

 

Forma e suono dell’inferno

 

 

È densa la realtà di cui parla Landolfi e ha una forma e un suono che la pervadono tutta, facendone un complesso firmamento:

 

L’intera terra par fatta un immane
Clavicembalo e vibra in una nota.
[…]

(Viola di morte, cit, p. 84)

 

Che il poeta ritrovi tale nota nel canto delle cicale, nell’ululo del lupo, nella sinfonia del tempo scialacquato o altrove, dove si piange e si deplora la stirpe umana e peritura, è proprio in quell’unica nota che egli riconosce la struttura del quotidiano, tanto il suo senso quanto la sua ultimità: è in quella nota che vibra il suono, ripetuto sino alla morte, della mia esistenza. Quel suono sempre uguale è il limite di ciò che, giorno per giorno, posso scorgere. Nel rintocco delle campane risuona il mio nome e il mio tormento, così come intravvedo il mio segno nella «pecorile litania» dei miei versi, nella loro «vaga agitazione» (ivi, p. 59). Su tale aspetto stilistico tornerò più avanti; per adesso basti osservare che la mia voce è la forma immutabile della mia invincibile sofferenza:

 

Dovunque ci meni la vita
O la morte, qualunque sentiero
Corra il nostro pensiero,
In qualunque reame la più ardita
Fantasia ci introduca, in qual sia mare
Gettiamo lo scandaglio, in qual sia cielo
Profondiamo lo sguardo, in qual sia terra
Cerchiamo l’ardua pace, qual sia nube
Poniamo a specchio delle nostre pene −
Noi non scorgiamo altro che questo.
[…]

(ivi, p. 113)

 

La figura delle mie passioni è, dunque, in questa nota che corre anche il rischio di non poter essere decifrata, né da me, né dagli altri: quanto è strappato, divelto e difficile da comunicare persino il più semplice dei pensieri! Come si è già accertato, sembrerebbe in fondo vana la mia «diuturna fatica» (ivi, p. 152) di ricondurre il disperso e il discorde all’uno, alla norma che tutta la mia vita informa; proprio perché questa tende inesorabilmente a un limite, alla morte o, che è poi la medesima cosa, all’inconcluso, al nulla che, pur essendo ovunque, mi resta precluso. Perché, giorno per giorno, io sperimento quell’inferno e finisco per accorgermi che esso non ha suono: può forse definirsi suono l’emissione costante della stessa nota?

«Il vero inferno − dice così Landolfi nella BIERE DU PECHEUR − è una cosa senza rumore. Esso non delira o infuria, non è una bestia feroce, ma un che, un qualcuno di sordido e molle che s’insinua in noi, quando con noi non nasca, e a poco a poco riempie tutte le nostre cavità, fino a soffocarci. Esso è fatto di giorni inerti (chimicamente parlando), d’infedeltà a noi stessi, di continui cedimenti» (T. Landolfi, LA BIERE DU PECHEUR, in Opere (1937-1959), cit., p. 636). Ben si evince quanto quell’unica nota sia subdola e, al contempo, pervasiva e compatta. Si capisce il modo in cui quel ghigno senza forma mi riempia la bocca, «Come la terra al morto» (Viola di morte, cit., p. 186). Eccola qui l’irriducibile forma del suono. è così che il mio niente si fa tutto («infinite cose è la stessa che una cosa sola», assicura Landolfi negli anni Sessanta, in uno dei suoi racconti impossibili) e mantenendosi ostinatamente cosa priva di forma e di suono non mi consente di possedere davvero neanche ciò che ritengo possa appartenermi.

Sul piano testuale − e nelle poesie di Viola di morte (come anche, se si vuole, nel Grande cretto nero, che Alberto Burri realizzò tra il 1976 e il ’77) ciò si vede perfettamente − posso ritrovare un equivalente retorico di questo inferno: come Landolfi riesca a riprodurre nei suoi versi la forma e il peso di quella nota. Si è già accennato al fatto che l’allestimento ostinato, ripetitivo e ipertrofico della scrittura landolfiana possa essere considerato criterio e, allo stesso tempo, sintomo del mondo tetro, gelido e luttuoso attraversato dal poeta: non è forse egli stesso a rivelarmi che è la rima che ci mena a morte? Per quanto una poesia vera sia per Landolfi una contraddizione in termini, egli ritiene che il mondo sia da affrontare senza ambiguità, servendosi di un linguaggio che, pur non essendo di alcun conforto, mi consenta un’espressione sincera (precisa, pertinente e mai affettatamente retorica o magniloquente) anche degli aspetti più complessi e ambigui della realtà che, in questo modo, non restino privi sulla pagina del loro mistero.

19 maggio 2014

 

 

 

 

Sul peso della lettera

 

 

E crede che basti questo? Crede che basti dire:
io sono così e così, per essere poi
tranquillamente così e così?
(LA BIERE DU PECHEUR, cit., p. 660)

 

 

Si ha l’impressione che Landolfi nelle sue poesie abbia preferito farsi pienamente carico del peso della realtà, privilegiando tale disposizione volta alla materialità alla dissimulazione ironica che prevale, invece, nei suoi racconti. è come se il poeta avesse voluto accordare ai propri versi una funzione ben diversa da quella che normalmente aveva scelto di accollare alla prosa. Evidentemente la poesia gli consente di isolare il nucleo semantico delle cose, a contatto con il quale risulta impossibile (e persino inutile) qualsiasi pratica di mascheramento: aderendo alla lettera smetto di alterare la realtà perché sento per intero il suo peso, vale a dire la sua materialità, la sua muffa, i suoi strappi, le sue imperfezioni, l’urgenza di quell’espressione che, così come nella serie dei Cretti di Burri, finisce per rendere significanti le crepe e le spaccature della materia che si decompone.

Si è già parlato della forma (della struttura articolata mediante la quale riesco a misurare l’entità di quel peso) e della consistenza drammatica dei versi di Viola di morte; il dramma è invece dissimulato in un testo come Da: «La melotecnica esposta al popolo» nel quale l’autore affronta pseudoscientificamente la questione del peso, della durezza, persino del colore delle note, andando, però, ben al di là del grado in cui la realtà risulta essere ancora stabile e comprensibile: «non tutti sanno […] − assicura Landolfi in questo scritto uscito su «Domus» nel settembre del ’41 − che le note emesse da gola umana hanno un proprio peso e una propria consistenza […]. Del pari molti ignorano che le note emesse da gola umana hanno un loro proprio colore, diverso, s’intende secondo la loro altezza, intensità, giustezza […]. Le note emesse da gola umana hanno inoltre un loro proprio sapore o gusto, un odore, un calore, una forma e infine una composizione chimica più o meno determinati» (il racconto, inserito nella raccolta del 1942 intitolata La spada, figura adesso nel volume delle opere di Landolfi citato in precedenza; le citazioni sono tratte dalle pp. 321, 323 e 326).

Che ci si rapporti a quella che Zanzotto definiva «réalité rugueuse» (su «Panorama», nel 1989, a proposito della rappresentazione allestita nella BIERE DU PECHEUR) mediante l’ironia della prosa o attraverso quel corpo a corpo privo di scioglimento, intrapreso per il tramite della poesia, risulta comunque evidente che la voce dell’uomo quel peso ce l’abbia e che esso comporti alcuni importanti sbocchi; tali esiti (mai inerti e che Landolfi si guarda bene dal considerare come conclusioni) sono ancor più notevoli in quelle prove poetiche in cui, come in Viola di morte, il verso è stato privato della sua carica retorica, prediligendo invece una descrizione della realtà capillare e priva di orpelli, anche se organizzatissima sul piano formale: la levigatezza che Montale, sin dagli anni Cinquanta, riconosceva tra le doti principali delle opere landolfiane, è riconoscibilissima anche negli ultimi lavori. Tuttavia, la rinuncia all’artificio retorico dell’ironia (secondo una risoluzione studiatamente anti-ironica, dunque?) consente alla poesia di Landolfi di focalizzare l’attenzione sugli aspetti specifici della realtà, anche quelli in relazione ai quali il poeta si pone più criticamente. Tale atteggiamento − nell’Orlando furioso, simile a quello di Ruggiero che, cavalcando l’Ippogrifo e impugnando lo scudo magico di Atlante, deve fronteggiare il mostro marino che ha rapito Angelica − si può comprendere pienamente leggendo la lirica che segue:

 

Credere alle stagioni
Ho voluto, cedere alle ragioni
Del vento e della lodola nel prato
Lunare.
Ed è venuta primavera
Che mi dovrebbe consolare.
Dunque perché, perché d’un tratto
Tutto m’abbaia contro,
Come contro Ruggero
L’innominabile mostro?
Pacifiche apparenze, segni antichi,
Mi sono fatti nemici.

Se ciò che dorme può accettarmi ancora,
Ciò che rinasce mi rifiuta.

(Viola di morte, cit., p. 289)

 

Nel dichiarare la propria avversione, la propria contrarietà, ma anche la propria inadeguatezza o inattualità, il poeta non altera la realtà; egli non afferma qualcosa intendendo dire l’opposto, né condivide quello che in realtà condanna. Si riferisce direttamente a un livello semantico profondo, attraversando il lessico da parte a parte, servendosi cioè di ogni possibilità della parola per definire tanto la realtà che lo circonda, quanto la sua particolare posizione in relazione a essa. è dunque certo che le poesie di Landolfi presentano accostamenti inediti di figure e sottolineano, come già detto, la sua personale discordanza, invitando chi legge a cogliere lo scarto di significato, la distanza abissale che tale posizione, così attentamente desunta, comporta.

27 maggio 2014