Recensione a Paolo Zublena, “La lingua-pelle di Tommaso Landolfi”

 

Di seguito si propone la recensione al libro di Paolo Zublena, La lingua-pelle di Tommaso Landolfi (Firenze, Le Lettere, 2013, pp. 125), scritta da Daniele Visentini e apparsa su «La rassegna della letteratura italiana», CXVIII, 1, gennaio-giugno 2014, pp. 345-46.
 
 

 
La lingua, sfinge che incanta l’intera opera narrativa landolfiana, palese chimera inseguita durante la stesura dei diari, è soggetto fondamentale alla decifrazione del “personaggio” e dell’uomo Landolfi. Non solo e non tanto la lingua in falsetto, artata, manierata, e come tale studiata nel cavo di ogni sua piega allo scopo di realizzare una prosa unica per accuratezza e complessità di vocabolario, bensì una lingua più concretamente falsa; una lingua «falsamente classicheggiante, falsamente nervosa, falsamente sostenuta, falsamente abbandonata»: falsa in tutti i sensi, dunque falsa per vocazione (LA BIERE DU PECHEUR, in Opere I (1937-1959), a c. di Idolina Landolfi, Milano, Rizzoli, 1991, p. 650). Dove all’aggettivo in questione non si fornisse un mero significato negativo – che d’altronde testimonia lo sfumare del dilemma in tragedia, posto che alla scrittura, come alla vita, un’armonizzazione tra forma e contenuto non possa imporsi –, si scoprirebbe però, all’origine della falsità, la finzione. E, infine, se il risvolto esterno della poiesis, della creazione, coincide necessariamente con la finzione, va da sé che la falsità della scrittura è prigione da cui non si evade, e che anzi costituisce sì un limite all’espansione dello spirito poetico, ma come un’entità che nel contempo preserva e incarcera.
Continua a leggere

Dall’Introduzione a La lingua-pelle di Tommaso Landolfi

 

 
La lingua, sfinge che incanta l’intera opera narrativa landolfiana, palese chimera inseguita durante la stesura dei diari, è soggetto fondamentale alla decifrazione del “personaggio” e dell’uomo Landolfi. Non solo e non tanto la lingua in falsetto, artata, manierata, e come tale studiata nel cavo di ogni sua piega allo scopo di realizzare una prosa unica per accuratezza e complessità del vocabolario, bensì una lingua più concretamente falsa; una lingua (come lo stesso Landolfi ebbe a definirla nella BIERE) «falsamente classicheggiante, falsamente nervosa, falsamente sostenuta, falsamente abbandonata»: falsa in tutti i sensi, dunque falsa per vocazione. Dove all’aggettivo in questione non si fornisse un mero significato negativo – che d’altronde testimonia lo sfumare del dilemma in tragedia, posto che alla scrittura, come alla vita, una armonizzazione tra forma e contenuto non possa imporsi –, si scoprirebbe però, all’origine della falsità, la finzione. E, infine, se il risvolto esterno della poiesis, della creazione, coincide necessariamente con la finzione, va da sé che la falsità della scrittura è prigione da cui non si evade, e che anzi costituisce sì un limite all’espansione dello spirito poetico, ma come un’entità che nel contempo preserva ed incarcera.
Continua a leggere