Fortini, Landolfi e la disperazione

 di LUCA LENZINI
 

 
Landolfi non è tra gli autori novecenteschi che Franco Fortini, nella sua lunga militanza di critico, seguì con attenzione. Quest’ultima fu rivolta soprattutto a poeti, ma non mancarono peraltro, negli anni, suoi  interventi su narratori: la sua bibliografia ne è anzi ricca, specie nel periodo della collaborazione a «Comunità», e spiccano nei Saggi italiani per penetrazione i lavori su Cassola, Pavese, Bassani, Pratolini, Vittorini. A Landolfi sono dedicati tre interventi lungo un arco di mezzo secolo: il primo del 1940 (Tommaso Landolfi o la disperazione, «Ansedonia», n.s., II, 4, ottobre-novembre 1940, pp. 4-12), il secondo del 1953 (La birra del peccatore, «Comunità», VII, 20, settembre 1953, p. 44-46), l’ultimo del 1990 (La luna di Landolfi, «il Manifesto», 24 giugno 1990, p. 33). Nessuno dei tre confluì nelle raccolte pubblicate in vita da Fortini (l’ultimo appare in un volume postumo, non ideato dall’autore), e si capisce perché: il più antico è un testo giovanile che, come tutta la produzione del periodo fiorentino, restò escluso dalle sillogi saggistiche, la prima delle quali è Dieci inverni, comprendente lavori datati tra 1947 e 1957; il secondo è una breve recensione, ed il terzo una ricognizione a distanza di taglio memorialistico.
Continua a leggere

Landolfi, Santi e la “terza generazione”: memorie di vizi e notti di luna

 di ANTONIO TARANTINO
 

 
«Pochissimi sanno chi è Landolfi, specialmente tra quelli che hanno letto i suoi libri. Ma degli uomini si avvertono, di solito, i miti che ognuno più o meno volontariamente si crea: a pochi è dato andar oltre. Indubbiamente, Tom è di quegli uomini davanti ai quali si può essere puri di atteggiamenti: proprio l’ultima cosa, questa, che potevo pensare qualche anno fa» (1).
Continua a leggere

Dall’Introduzione a La lingua-pelle di Tommaso Landolfi

 

 
La lingua, sfinge che incanta l’intera opera narrativa landolfiana, palese chimera inseguita durante la stesura dei diari, è soggetto fondamentale alla decifrazione del “personaggio” e dell’uomo Landolfi. Non solo e non tanto la lingua in falsetto, artata, manierata, e come tale studiata nel cavo di ogni sua piega allo scopo di realizzare una prosa unica per accuratezza e complessità del vocabolario, bensì una lingua più concretamente falsa; una lingua (come lo stesso Landolfi ebbe a definirla nella BIERE) «falsamente classicheggiante, falsamente nervosa, falsamente sostenuta, falsamente abbandonata»: falsa in tutti i sensi, dunque falsa per vocazione. Dove all’aggettivo in questione non si fornisse un mero significato negativo – che d’altronde testimonia lo sfumare del dilemma in tragedia, posto che alla scrittura, come alla vita, una armonizzazione tra forma e contenuto non possa imporsi –, si scoprirebbe però, all’origine della falsità, la finzione. E, infine, se il risvolto esterno della poiesis, della creazione, coincide necessariamente con la finzione, va da sé che la falsità della scrittura è prigione da cui non si evade, e che anzi costituisce sì un limite all’espansione dello spirito poetico, ma come un’entità che nel contempo preserva ed incarcera.
Continua a leggere

Un estratto dal libro di Antonio Prete, “A l’ombre de l’autre langue. Pour un art de la traduction”

 

 
Il sogno e il delirio (sua variante vigile, dunque perversa) costituiscono, per così dire, i fuochi attorno cui la ricerca linguistica di Landolfi ruota senza sosta, a quella stessa distanza costante e tremenda con cui la navicella di Cancroregina ruota attorno alla Terra: il sogno leopardiano di poetica purezza primigenia, che si tenta consci della sua impossibile realizzazione; il delirio insito nella volontaria, anzi programmatica evasione del senso, il quale è denuncia di un sogno svanito nelle tenebre chiare della veglia. Al di là dello scoglio apparentemente insormontabile del significato mancato, dell’insensato prodotto da sogni e deliri, il Landolfi del Dialogo dei massimi sistemi, a mezzo fra il divertissement contagioso à la Carroll e l’universalismo di Finnegans Wake, fa scorgere al lettore uno spazio incontaminato di essenze: l’apparentemente intraducibile, allora, diventa il già tradotto, forma in sé sostanziale dacché esprime una creatività svincolata dalla logica consuetudinaria.
Continua a leggere

Il “Landolfo”, Landolfi, i Landolfi.

 di DANIELE VISENTINI
 

 

È probabilmente noto ai lettori di Tommaso Landolfi, e indubbiamente è assai noto ai suoi interpreti e critici, il giudizio espresso dall’autore in una rara intervista televisiva circa il suo Landolfo VI di Benevento. Incalzando egli stesso l’intervistatore a chiedergli quale fosse il libro prediletto tra i suoi, e perciò programmando questo speciale verdetto con qualche anticipo, Landolfi asserisce senza tentennamenti che «Il Landolfo […] è senz’altro il suo migliore libro e, per conseguenza, è il meno apprezzato»(1).
Continua a leggere