“Landolfi e il carosello delle blatte” di Giovanni Arpino

Lo scrittore e giornalista Giovanni Arpino (1927-1987) tra il 1964 e il 1965 tenne una rubrica sul settimanale “Tempo”, i cui articoli vengono adesso raccolti per la prima volta in volume dall’editore minimum fax, che sta ristampando l’opera di un autore importante e dimenticato, con il titolo Lettere scontrose. 52 lettere e una risposta. Tra i destinatari di queste missive, «gradite e sgradite», ci sono gli uomini e le donne più importanti di quegli anni, da Dario Fo a Ugo La Malfa, da Virna Lisi ai Beatles a Totò (l’unico che gli rispose). Non sono però solo lettere scontrose, in alcuni casi sono piene di ammirazione, come quella a Tommaso Landolfi a cui si rivolge in questi termini: «posso indirizzarla solo a lei, che è tra i pochi a lavorare senza rete nel circo equestre delle lettere nostrane». La riproduciamo qui di seguito ringraziando l’editore minimum fax per la gentile concessione.

***

Landolfi e il carosello delle blatte

3 febbraio 1965

Caro Tommaso Landolfi,

più d’una volta sono stato invitato a indirizzare, su questa pagina, lettere a scrittori, letterati, poeti, critici, militanti. Perché non Sartre?, è stato detto, perché non Vittorini, o Cassola, o Bassani?, perché non quei tali dell’avanguardia? Gli argomenti, concordi e discordi, non ti dovrebbero mancare seguitavano a suggerirmi, a stimolarmi – e poi gli scrittori «vanno», la gente si incuriosisce, magari nascono polemiche utili a tutti…

Ho sempre opposto resistenza, non per solidarietà di clan (ma quale o quali clan, alla fine?) bensì nel timore di creare confusioni superflue. Certe dispute si inceneriscono tra le dita appena si tenta di volgarizzarle, l’invettiva più ragionevole risulterebbe fraintesa se gridata in piazza, i panni sporchi o puliti non sarebbero visti in tutte le loro complicate sfumature di colore da chi acquista il periodico e giustamente pretende di ricavarne fatti, dati, notizie, sostanza, e non interpretazioni svagate, o salottiere, o astruse e chiuse entro un linguaggio riservato a pochi.

Ma questa rubrica, come scrissi all’inizio della prima lettera «scontrosa» e come forse è utile rammentare, si ispira a una sana curiosità, a un normale buonsenso, a un’elementare esigenza di giustizia, a un minimo di civile indignazione. E così, anche se desidero evitare di crear polvere battagliando col «Verri» o col «Menabò», anche se mi guardo bene dal tirare in ballo Cassola e le sue dichiarazioni sul disimpegno, non posso tacere alcune parole sul costume letterario italiano. E mi rivolgo a lei, caro Landolfi, che degli scrittori contemporanei è il più isolato, il più restio ad apparire, a manifestarsi, a illustrarsi e concedersi. Tra Pico (Frosinone) e Arma di Taggia (Sanremo), lei vive dentro il suo guscio segreto, senza spartire chiacchiere, senza condividere opinioni, senza congetturare alleanze. Lei sta ai suoi racconti, alle sue mirabili traduzioni dai classici russi e al filo stesso della sua vita come un nobile albero sta ai suoi frutti, alle stagioni, partecipe e insieme distaccato, e prontissimo a fronteggiare le intemperie con un aumento di silenzio, di disprezzo per il prossimo vile, di dolorosa ironia verso la vita che è qual è e non abbisogna più di note a piede di pagina.

Non posso certo indirizzare lettere di sorta a qualche povero manutengolo del sottobosco letterario, o a critici pagati sia dagli editori sia dai giornali, o a chi interpreta l’esercizio narrativo come un lavoro automatico – tante mattine, tante pagine – o come una forma di distensione, o come una comoda e allegra cavalcata tra birilli e opaline. Miei destinatari non possono certo essere gli Arbasini e tutti gli altri autori di racconti «coi buchi», di pop-romanzi, di prodotti volontaristicamente fatti sgocciolare giù da mille stenti alambicchi e che con asmatico furore cercano di farsi largo sulle piazze. Non so neppur più se mi è possibile corrispondere con chi reinventa oggi il muffoso concetto dell’arte-per-l’arte, cioè di un’arte in pallone. Ho impiegato anni per capire che uno scrittore, soprattutto un narratore di storie, faticosamente cerca di crearsi un suo ideale lettore; alla fine scopre di non poterne avere, alla fine viene a toccare con mano che l’unico giusto, severo, partecipe e critico lettore è quella parte di se stesso che gli combatte dentro. Scrivere, ha detto Musil, non è un’attività, è una condizione, anche se «ai poeti non resta da fare oggi che una poesia onesta, la quale costa una vita di riparazione e di penitenza» (Saba).

Il profeta della moderna fantascienza

Se mi consente di tentare una cornice a uso del pubblico, caro Landolfi, posso dire che l’ordine dei letterati italiani, dopotutto, non è peggiore né migliore dell’ordine dei medici, degli ingegneri, degli architetti. Se la società letteraria italiana non si pronuncia quasi mai con parole vere e semplici, bensì ricorrendo a ogni sorta di eufemismi, questo dipende dalle sue ereditate strutture, dai vizi mondani vecchi di secoli, dal suo eccessivo amore del quieto vivere, dalla viltà che si annida in ogni uomo del nostro tempo, dagli interessi che ciascuno si studia di far maturare e comporre alla svelta, dalle speranze in facili «torte» future, in future accademie, in probabili canonicati, sinecure, gualdrappe onorarie. L’intellettuale, diventato medio professionista, si tiene al riparo dai rischi e dà fiato solo quando è con le spalle ben protette o quando, gridando perché non ha niente da perdere, spera di spaventare il prossimo e conquistarsi un posticino presso l’editore Y, la terza pagina del giornale X, la radio, l’ufficio pubblicità di un grosso ente… Sempre più rara è la figura del poeta o del narratore che si ubriaca, che fa tardi, che è un po’ matto, che si spende per le compagnie. Oggi: doppiopetto grigio, modi educati, sorrisi di società, intrighi di corridoio portati avanti con un equilibrio – stavo per dire con un pudore – degno di corte.

Insomma, caro Landolfi, questa lettera potevo scriverla solo se mi riusciva di trovare un destinatario non allineato, non remissivo, non sceso a patti, non «inserito». Posso indirizzarla solo a lei, che è tra i pochi a lavorare senza rete nel circo equestre delle lettere nostrane. E posso indirizzarla a lei non soltanto per la grande stima che le porto, o per l’amore di cui spesso m’accende il suo lavoro, ma anche perché oggi noi tutti navighiamo come la straordinaria e pazza ciurma del suo racconto «Il mar delle blatte». Sulla nostra fregata (o goletta o brigantino), si sia capitani o vergini lattanti, marinai o nostromi o corsari, si sia furbi o cinici o sprovveduti, eccoci qui impantanati in un mare che «a perdita di vista, senza una terra all’orizzonte, sotto la cappa affocata del cielo, appare nero come l’inchiostro, e di una lucentezza funebre; una quantità sterminata di blatte (o scarafaggi) tanto fitte da non lasciar occhieggiare l’acqua di sotto, lo copre per tutta la sua distesa. Nel gran silenzio s’ode distintamente il rumore secco dei loro gusci urtati dalla prua. Lentamente, a fatica, la nave può avanzare, e subito le blatte si richiudono al suo passaggio…»

Vermi amorosi e donne-armadillo, lupi di mare o senatori decorati, siamo ormai prigionieri per sempre nella nave accerchiata e quasi immobile. Non solo non raggiungeremo alcuna isola felice, ma neanche il più sporco angolo di terra ferma. Seguiteremo a disputare all’infinito sulla tolda e nelle cabine e accanto all’albero di maestra, credendoci importanti e degni dell’aldilà. All’infinito? Macché: a un bel momento qualche sconsiderato tra noi calpesterà istericamente una tranquilla blatta salita su per una gomena a darci un’occhiata, e allora la nave sarà invasa, gli scarafaggi vendicatori ci seppelliranno tutti sotto i loro gusci, indifferenti alla nostra piccola cattiveria, alla nostra piccola bontà.

Ma chi ci pensa? Chi ha voglia di sporgersi oltre il parapetto a occhieggiare? Chi smette per un attimo i suoi piagnucolii di uomo eterno centro dell’universo?

Venticinque anni sono passati da quando lei, Landolfi, umiliando in due righe e con enorme anticipo certi maestri della moderna fantascienza, scrisse questo racconto. Regnavano allora gli ermetici, e milioni di italiani con le pezze al didietro si godevano in pigrizia e sussiego il loro ridicolo impero. E oggi? Che c’è di nuovo? Che s’inventa?

Non lascerà successori e non avrà imitatori

Non scivoliamo in vane tristezze, cerchiamo piuttosto di vederci con esatta crudeltà nello specchio. Una notizia deve fornirci consapevolezza e incoraggiamento nuovi: un notissimo romanziere italiano pare che si accinga a recitare un suo sketch televisivo inneggiando a un certo «marsala», alternandosi sui «video» ad attori che magnificano caffè e spaghetti, a cantanti che esaltano dentifrici e macchine lavapiatti.

Ci siamo! Finalmente! Il mondo cambia, e neppure noi staremo più chiusi tra le pagine, inavvicinabili e senza volto. Tra poco, se il mercato si mostrerà sensibile, ciascuno di noi potrà far denaro, anziché con le sudate carte, con la propria onesta faccia. Soldati esalterà un barbera, Moravia una macchina per scrivere, Bacchelli una «salama da sugo», Gadda la pasta di Napoli, Cassola un panforte, Pratolini una marca di Chianti… Saremo truccati, istruiti, i tecnici della tv ci impediranno di salvarci l’anima con inutili citazioni da Platone, Lukács, De Sanctis… Il nostro «impegno» sarà davvero totale, perché dedicato ai consumi, all’economia delle battaglie, alla felicità marcata Upim. La famosa divisione tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, l’annulleremo d’un balzo legandoci strettamente al mondo dei prodotti, che sono legittime propaggini dello sforzo scientifico.

Pensi, caro Landolfi, alle meraviglie che riuscirebbe a dire un Arbasino se dovesse reclamizzare gli alabastri di Volterra o alle delizie urlate di Ungaretti in onore di un Motta o di un Cirio…

Naturalmente, sulle riviste di cultura, si moltiplicheranno i «diari di contrizione» distillati dopo il lavoro davanti alle telecamere. Saremo umiliati e offesi, ma benestanti. E troveremo sempre difensori generosi: i quali citeranno antichi precetti, e urleranno dalle gazzette che la colpa è tutta dei lettori, perché la popolazione attiva in Italia è di oltre ventisei milioni di persone e tra costoro solamente centomila, forse duecentomila, acquistano libri. E, come è più che naturale, lei non sarà citato, caro Landolfi, perché «fuori categoria», perché i suoi preziosi Racconti non sono mele marce da svendere sui mercatini, perché saremo proprio noi «impegnati» a distogliere l’attenzione degli acquirenti dalle sue Due zittelle e dalla sua «Moglie di Gogol».

Gli antichi strumenti scrittorii devono essere abbandonati. Ho creduto fino a oggi che il miglior strumento di uno scrittore fosse non la penna, non la carta, non la macchina per scrivere, ma il cestino della carta straccia. Dal cestino della carta straccia si misura chi scrive. Ebbene no, i tempi mutano, voleremo con parole leggere, significanti; che esercitino un peso immediato sull’economia nazionale.

Ecco, ho finito, e le chiedo scusa. So che avrà indulgenza per me, ammesso che mi legga: dall’alto del suo trapezio, caro Landolfi, lei nemmeno vede gli errori altrui, può soltanto sognarli e deformarli come meritano.

Spero che arrivi presto a Milano, dalla fiorentina «Vallecchi», il suo amico e sostenitore Alfredo Righi. Con lui potrò finalmente parlare – verbigrazia! – del Landolfi che esiste per pochi, che non lascia successori, che non ha varianti, che non è suscettibile di imitazioni.

Creda al più caloroso augurio di

Giovanni Arpino